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Il vero costo della tua maglietta preferita è un oceano di plastica: l’impatto del fast fashion sull’ambiente

Si pensa spesso che l’inquinamento sia dovuto principalmente alle auto, al riscaldamento domestico, o alle aziende di produzione alimentare; forse non tutti conoscono, però, l’impatto negativo che può avere l’industria del fast fashion sull’ambiente. La Ellen Mc Arthur Foundation stima, infatti, che entro il 2050 il consumo di energia per la produzione tessile triplicherà, ma non solo. A causa dei nostri consumi smodati le tonnellate di microfibre presenti negli oceani aumenteranno di ben 22 milioni, per colpa anche dei lavaggi in lavatrice di capi che di organico hanno ben poco. Se non vi sentite responsabili, forse dovreste cambiare idea. E oggi vi spiegherò perché è importante agire subito, cambiando le proprie abitudini di consumo.

Una doverosa premessa

[didascalia fornitore=”altro”]Un’infografica della Ellen Mc Arthur Foundation, tratta dal report “A New Textile Economy”[/didascalia]

L’impatto del nostro consumo sull’ambiente si muove per diverse fasi: non dobbiamo solo considerare, infatti, il momento produttivo, bensì anche l’energia e le risorse richieste per la coltura delle fibre naturali (come il cotone), l’inquinamento derivato dal lavaggio dei capi, oltre che il destino degli abiti dopo che avranno concluso il loro ciclo vitale. Siamo ancora sicuri di voler comprare quella bellissima maglietta a 10 euro? Prima, proviamo a chiederci che impatto potrà aver avuto sull’ambiente.

La situazione attuale

Se il consumo energetico e di carbone così come l’inquinamento dei mari saranno il problema del futuro, anche il quadro attuale presenta delle sfide da non sottovalutare: la situazione, dai primi anni 2000 ad oggi, è andata sensibilmente peggiorando. Confrontando, infatti, i dati d’acquisto con il numero di volte in cui un certo capo viene utilizzato e indossato, il risultato è estremamente sconfortante: mentre all’inizio del nuovo millennio si tendeva a riutilizzare un indumento per numerose volte prima di gettarlo, oggi si assiste a un’inversione di tendenza.
In sostanza: compriamo di più e sfruttiamo di meno.

Le previsioni

Le previsioni della fondazione Ellen Mc Arthur sono più sconfortanti che mai. Continuando con i livelli di consumo e produzione di oggi, infatti, entro il 2050 potremmo trovarci di fronte a una situazione drasticamente peggiorata, in termini di inquinamento dovuto all’industria fashion.
L’utilizzo di risorse non rinnovabili triplicherà, passando da 98 a 300 milioni di tonnellate; qui sono compresi il petrolio grezzo per produzione dei capi in microfibra sintetica, i fertilizzanti per la coltura del cotone e tutti i prodotti chimici impiegati nella colorazione e finitura degli abiti. Ogni anno, oggi, vengono consumati ben 93 miliardi di metri cubi d’acqua per la sola produzione tessile –cotone incluso-: immaginiamo l’impatto sui territori che già soffrono di problemi di scarsità idrica. Nel futuro, se la richiesta aumenterà, la situazione non potrà che farsi ancora peggiore.
Non solo, le particelle in plastica rilasciate durante il lavaggio dei nostri capi arriveranno a essere ben 22 milioni di tonnellate: una vera invasione degli oceani e dei mari. I responsabili? Le fibre artificiali impiegate dall’industria del fast fashion, come il poliestere.
Se non fosse abbastanza, lo studio stima che se l’industria tessile continuerà con questi ritmi produttivi, il consumo di carbone potrebbe arrivare al 26% del totale disponibile entro il 2050, il che avrebbe tragiche conseguenze sul clima.

Non solo ambiente

Se qualcuno ha visto il documentario The True Cost sa benissimo che a subire le conseguenze dei consumi smodati dell’occidente non è solo l’ambiente, bensì tutti i soggetti coinvolti nella produzione dei singoli capi. Troppo poco spesso ci chiediamo come vengono tessuti e prodotti i vestiti che indossiamo; eppure dopo la strage del Rana Plaza (un edificio commerciale in Bangladesh che crollò nel 2013, uccidendo 1129 persone, tra cui moltissimi lavoratori tessili) dovremmo essere tutti più consapevoli. Purtroppo tanto si è detto, poco si è fatto –di concreto- per migliorare le condizioni lavorative di chi, materialmente, confeziona i nostri capi.
Per aggirare il problema non basta comprare capi “Made in Europe” : un rapporto della Clean Clothes Campaign della fine del 2017 ha dimostrato come l’ombra dello sfruttamento aleggi prepotentemente anche sul settore della produzione tessile marchiata Europa.

[npleggi id=”https://www.ecoo.it/articolo/moda-sostenibile-intervista-a-deborah-lucchetti-di-abiti-puliti-il-bangladesh-e-qui/25065/” testo=”Intervista a Deborah Lucchetti di Abiti Puliti: Il Bangladesh è qui”]

Ma allora cosa fare?

Cosa possiamo fare

Probabilmente dopo aver letto tutto questo, il senso di colpa sarà enorme, sovrastato da una domanda martellante: e quindi, io, cosa posso fare concretamente? I prezzi, i colori, gli stili dei vestiti delle grandi catene del fast fashion sono più attraenti che mai, e resistere a un paio di jeans alla moda a 20 euro non è semplice. Soprattutto se le alternative costano otto volte tanto (e, al netto delle considerazioni fatte finora, non si è nemmeno certi dell’eticità della loro produzione).

Cambiare però è possibile: la prima cosa che possiamo fare è riciclare. Riuso è la parola chiave che deve guidarci: del resto, il vintage è di moda più che mai, e in questo modo si sarà certi di non aver contribuito ad accrescere la domanda del settore tessile, così inquinato e deviato ai giorni nostri.

Non solo, un’altra alternativa vede l’acquisto in botteghe di artigiani oppure piccoli industriali a “km 0”: spesso infatti si pensa che propendere verso materie prime ‘etiche’ e che richiedono poca lavorazione (oggi adottate anche da alcuni grandi brand del fast fashion), come il cotone organico, possa essere una soluzione alle fibre più inquinanti e dannose, ma la verità non è proprio questa.
È pur vero che i capi acrilici e in poliestere -microfibre artificiali che rilasciano particelle di plastica altamente inquinanti e non biodegradabili a ogni lavaggio- siano da evitare: pensate solo all’impatto che possiamo avere sulle falde acquifere utilizzando detergenti non biodegradabili per lavare capi ancor meno organici! Ne parlava qualche mese fa proprio uno studio dell’International Union for Conservation of Nature, in questo report.
Ma anche l’acquisto di capi di cotone “bio” può essere estremamente dannoso per il pianeta: ovviamente, è meglio comprare capi organici rispetto a quelli composti di fibre artificiali, ma forse c’è una scelta migliore. Infatti, si immagini solo quanto inquinamento può essere provocato dal trasporto e dal confezionamento di un capo, seppur più etico, dall’altra parte del mondo, che dovrà poi viaggiare a lungo prima di giungere nei nostri negozi. Senza contare la quantità di acqua richiesta per la produzione e la coltura del cotone stesso.
Acquistare da produttori locali è una scelta immediatamente più efficace per “tagliare” tutti questi passaggi, così inquinanti e dannosi: ovviamente il passo preliminare sarà accertarsi che anche il bottegaio che scegliamo sia guidato da principi di etica ambientale e del lavoro.

La terza soluzione è quella, in realtà, più facile da applicare: riduciamo i consumi. Invece di recarci nel nostro negozio di fast fashion preferito una volta la settimana, andiamoci una volta al mese. È solo grazie alle nostre scelte d’acquisto che possiamo far arrivare dei messaggi alle grandi aziende. Da sempre, infatti, la produzione segue la domanda: riducendo quest’ultima, anche la prima subirà delle modifiche.

Certo, la questione è spinosa e complicata, ma fare qualche sacrificio e sforzo maggiore sarà più che necessario nell’immediato futuro; ora, prima che sia troppo tardi.

Giorgia Asti

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