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Il 20 marzo 1994 Ilaria Alpi, inviata del Tg3, e Miran Hrovatin, video-operatore, furono uccisi a Mogadiscio in Somalia da un commando armato. I due giornalisti stavano seguendo anche la guerra tra fazioni armate che stava distruggendo la Somalia ed erano venuti a conoscenza di traffici di armi e rifiuti tossici e radioattivi che dai paesi industrializzati venivano scaricati nel Corno d’Africa, in cambio di tangenti. I due giornalisti italiani stavano quindi indagando sugli investimenti e sulle attività della cooperazione internazionale e la relazione con i signori della guerra. Proprio per questo, risultando “scomodi”, sarebbero stati uccisi in una vera e propria esecuzione. Il caso giudiziario si era concluso con una condanna per Omar Hassan Hashi, messo in cella per il delitto. Ma il principale testimone dell’accusa, Gelle, ha ritrattato le sue dichiarazioni.
Chi erano Ilaria Alpi e Miran Hrovatin
Una “giornalista-giornalista”: così i colleghi che l’hanno conosciuta e quelli che ne hanno apprezzato il lavoro, hanno sempre definito Ilaria Alpi, usando le parole del film Fortapasc dedicato al collega Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra. Arabista e conoscitrice profonda del mondo arabo e africano, Ilaria inizia a collaborare con Paese Sera e l’Unità: vince il concorso in Rai e inizia la carriera da inviata nei luoghi di guerra, forte di un’etica profonda del giornalismo che racconta i fatti e la verità, nonostante tutto e tutti. “Donna bianca, sola, in una folla di uomini inferociti“, come la definisce Gigliola Alvisi nel suo libro ‘La ragazza che voleva raccontare l’inferno’, Ilaria sapeva raccontare la guerra, gli orrori e gli intrecci sporchi che si nascondono dietro ogni conflitto. A soli 33 anni ha pagato con la vita il suo modo di fare giornalismo, la ricerca di una verità scomoda che doveva essere rivelata perché tutti i tasselli fossero chiari. Con lei, Miran Hrovatin, operatore di 45 anni originario di Trieste, padre di 4 figli: dalla fotografia alla macchina da presa, Miran era sempre sul campo a riprendere tutto quello che era necessario per far luce sulle devastazioni della guerra.
Cosa facevano in Somalia?
Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano in Somalia a documentare per il TG3 il ritiro delle truppe italiane dopo la fallimentare missione internazionale “Restor Hope” nel paese del Corno d’Africa, devastato dalla guerra. Le sue ricerche la portano però a qualcosa di più grosso: un traffico di rifiuti tossici illegali che collegava il paese africano con l’Italia e il pagamento in armi e soldi. Una notizia troppo importante: lo Stato si era impegnato per aiutare la Somalia e le sue popolazione, mentre qualcuno, forse proprio con la complicità di apparati statali, sfruttava la guerra per arricchirsi.
Ilaria scopre che il sultano di Bosaso, a nord di Mogadiscio, ha sequestrato una nave che faceva parte della flotta donata da Bettino Craxi all’ex dittatore Siad Barre: nei giorni in cui sono lì, c’è uno strano e continuo movimento di navi. Dal mare affiorano fusti anonimi, contenenti materiali di cui non si sa nulla, al largo delle coste somale vengono fatte affondare le navi pur di far sparire i fusti; la popolazione locale è afflitta da malattie e malformazioni. C’è poi la strada che collega Garowe a Bosaso, costruita nel nulla dalla cooperazione italiana tra il 1987 e il 1989 con un investimento di 1.400 miliardi. “Che fine hanno fatto quei soldi“, si chiede la giornalista nei suoi appunti.
Il duplice omicidio
Il 20 marzo 1994 Ilaria e Miran tornano a Mogadiscio da Bosaso. Sono le 14.30 quando i due stanno per scendere dalla jeep e andare al loro hotel. In pochi attimi si avvicina un’auto con a bordo un commando di sette uomini. Miran viene falciato da una raffica di kalashikov, Ilaria freddata con un colpo alla testa a bruciapelo. Il giorno dopo le salme rientrano in Italia: il 23 marzo si tengono i funerali di Stato per la giornalista.
I depistaggi
Fin dai primi giorni ci sono troppi errori, discrepanze, depistaggi. Al rientro delle salme mancano dei bloc-notes di Ilaria, i suoi bagagli hanno i sigilli rotti, non viene fatta l’autopsia. Eppure da subito è chiaro il contesto in cui è maturato l’omicidio. “Non è stata una rapina. Si vede che sono andati in certi posti che non dovevano andare“, sono le prime parole rilasciate a caldo al cameraman della statunitense ABC, Carlos Mavroleon, dall’imprenditore italiano presente sulla scena del duplice delitto, Giancarlo Marocchino, che Ilaria conosceva e di cui non si fidava. I genitori di Ilaria iniziano da subito una battaglia per la verità: il padre Giorgio a luglio del ’94 parla chiaramente di “esecuzione“. La magistratura si concentra su Abdullahi Mussa Bogor, sultano di Bosaso, come mandante degli omicidi, ma la sua posizione viene archiviata. Inizia il balletto delle procure, delle perizie balistiche.
Il caso giudiziario
Qualcosa si muove nel gennaio 1998 quando il somalo Hashi Omar Hassan viene arrestato per concorso nel duplice omicidio. Lo ha riconosciuto l’autista di Ilaria: rinviato a processo viene prima assolto, poi condannato all’ergastolo e infine a 26 anni di carcere come uno dei componenti del commando. Nel 2004 si insedia una commissione parlamentare, presieduta dall’onorevole Carlo Taormina: due anni dopo la conclusione è quanto meno offensiva per la memoria della giornalista che sarebbe morta per una tragica fatalità, forse il tentativo di rapimento fallito. Si va avanti nelle indagini e nel 2010 il Pm Franto Ionta chiede l’archiviazione del caso perché impossibile risalire ai mandanti. Nel 2013 la presidente della Camera Laura Boldrini chiede il desecretamento degli atti acquisiti dalle Commissioni parlamentari d’inchiesta sui rifiuti e sul caso Alpi.
La riapertura del caso
Il processo che condannò Omar Hassan Hashi per l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è da rifare, dopo la scoperta delle nuove rivelazioni giunte dalla testimonianza alla Commissione parlamentare d’inchiesta resa in seduta segreta nell’ottobre 2004 dall’ex ambasciatore Giuseppe Cassini: “io non darei un soldo bucato alle testimonianze di Abdi, perché è un bantu. La testimonianza di uno come lui è labile“, affermava Cassini. Dunque secondo il diplomatico italiano che svolse gli accertamenti in Somalia il testimone autista della troupe che riconobbe Hashi era “una persona non affidabile e che farebbe qualsiasi cosa per sopravvivere“. Inoltre il presunto supertestimone Ahmed Ali Rage detto ‘Jelle’ principale accusatore di Hassan, avrebbe confermato che la sua testimonianza “venne pilotata”. Per questi motivi a Perugia si sta svolgendo il processo di revisione, per scagionare definitivamente Hashi che nel frattempo ha scontato 17 anni di carcere. Va precisato che in primo grado Hashi fu assolto, mentre fu condannato in Appello (tornò apposta dall’Olanda per essere presente al processo), e poi in Cassazione. Attualmente sta scontando gli ultimi tre anni in affidamento in prova.
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