In Italia c’è carenza di medici di base: questo è quanto emerge dai dati dell’Agenas (l’agenzia sanitaria delle Regioni). La situazione è grave soprattutto in alcune regioni e Silvestro Scotti, segretario di Fimmg (un sindacato dei medici di famiglia) ha tentato di comprendere perché stia accadendo ciò.
In Italia il sistema sanitario nazionale impone una regola ben precisa: ogni medico di base può curare al massimo 1.500 persone. Questo numero però negli ultimi anni si è dovuto alzare già arrivando a 1.800 per sopperire alla mancanza di personale. Ma cosa accadrà in futuro? La situazione pare essere destinata a peggiorare sempre di più. Ecco cosa sta succedendo esattamente.
In Italia i medici di base scarseggiano
Da quando la pandemia è scoppiata, quasi tre milioni di italiani hanno perso il loro medico di famiglia. Alla crisi sanitaria – a cui ha seguito già quella economica e sociale – segue anche quella della professione. I dati dell’Agenas (l’agenzia sanitaria delle Regioni) parlano chiaro: c’è carenza di medici.
Ma attenzione: non parliamo solo di quelli di famiglia, che ad oggi però rappresentano il problema maggiore. A scarseggiare sono i medici di diverse specialità ospedaliere, tra cui pronto soccorso, radioterapia, anestesia e rianimazione. Come scrive l’Agenas: “Nell’ambito del personale medico risultano carenti alcune specializzazioni. La carenza principale riguarda i medici di medicina generale che, sebbene rapportati alla popolazione siano apparentemente sufficienti, risultano inferiori rispetto alle medie Ue e non omogeneamente distribuiti sul territorio, risultando carenti nelle aree a bassa densità abitativa o caratterizzate da condizioni orografiche o geografiche disagiate”.
Il problema è il seguente: fino al 2019 la situazione era ottimale. In Italia lavoravano ben 42.428 medici di famiglia, numero sufficiente per accontentare tutte le famiglie. Cos’è accaduto poi dopo?
La situazione oggi
Dei 42.428 medici di famiglia registrati tre anni fa, solo 40.250 ne erano rimasti un anno fa. Questo significa che 2.178 professionisti sono venuti meno e non sono stati sostituiti e, di conseguenza, quasi 3 milioni di italiani (2,7 per essere precisi) sono rimasti senza punto di riferimento e hanno quindi dovuto cercare un nuovo medico.
Qui si apre il primo problema: il sistema sanitario nazionale prevede che ogni dottore possa prendersi cura (nel senso letterale del termine) di 1.500 persone massimo, ma attualmente per far fronte alla carenza di personale, il numero si è alzato, arrivando anche a 1.800.
Pensando ad una prospettiva futura poi subentra anche il secondo problema: gli specializzandi in medicina di base non sono abbastanza, nel senso che sono meno rispetto ai professionisti prossimi alla pensione. Per comprendere meglio il tutto, basti pensare che nel 2021 3.337 persone hanno detto addio alla professione e solo 973 sono invece entrate a far parte del corso post laurea. Quest’anno la situazione – almeno stando ai dati raccolti nei primi sei mesi – è peggiorata ulteriormente: gli “uscenti” sono stati 2.173 e gli “entranti” 226.
Se volessimo ricostruire la situazione regione per regione, possiamo osservare subito che solo la Toscana e la Provincia di Bolzano sono rimasti immuni da questo calo di medici. Tutte le altre negli ultimi anni hanno subito invece questo cambiamento in negativo. Ecco qualche esempio: per quanto riguarda il Sud in Campania il numero dei medici è passato da 4.037 a 3.631, in Calabria da 1.496 a 1.089, salendo verso il centro troviamo il Lazio in cui il numero è sceso da 4.462 a 4.244 e andando ancora più su verso il Nord è emblematico il caso della Lombardia che ha visto una diminuzione del numero da 6.091 a 5.774.
Ovviamente un altro dato da prendere in considerazione è anche il rapporto tra cittadini assistibili e medici di base: complessivamente troviamo oggi 1.237 persone per camice bianco, considerando che nel 2019 le persone erano “solo” 1.224.
Questa appunto è una media nazionale, ma troviamo in alcune regioni picchi decisamente più alti. Qualche esempio? La Lombardia, in cui il numero sale vertiginosamente a 1.450, la Calabria in cui ammonta a 1.423, il Veneto in cui si attesta a 1.370. A queste seguono la Provincia di Trento con 1.367 pazienti per medico, il Friuli Venezia Giulia con 1.337, la Valle d’Aosta con 1.323, l’Emilia-Romagna con 1.316. In tutte le altre regioni il numero si avvicina decisamente di più alle 1.237 persone in media, anzi in molte – come la Toscana, l’Abruzzo, la Sicilia, l’Umbria, il Molise – scende anche al di sotto.
Ma perché sta accadendo ciò? A dare una spiegazione ci ha pensato Silvestro Scotti, segretario di Fimmg (un sindacato dei medici di famiglia). Secondo lui, infatti, il problema è questo: “Per 20 anni e più le borse di medicina generale sono state 900 all’anno. Non servivano a sostituire chi usciva. Non era programmazione basata sulle reale carenze”. Queste all’inizio bastavano eccome, mentre oggi non sono più sufficienti. I medici di base che vanno in pensione ogni anno sono circa 3mila, ma le borse di studio sono state incrementate troppo tardi. A questo si aggiunge che, durante la fase iniziale della pandemia, molti medici di famiglia sono stati additati come “fannulloni” e anche questo ha spinto alcuni a voler andare in pensione il prima possibile. Insomma secondo Scotti il motivo è in parte economico e in parte sociale. Come trovare una soluzione definitiva a tutto questo però ad oggi non è ancora chiaro.
Nel frattempo la stessa Fimmg ha provato ad avanzare una proposta: il sindacato infatti vorrebbe mettere a punto un nuovo modello che possa ottimizzare le iniziative messe in atto negli anni, dando luogo ad un nuovo tipo di assistenza che possa rendere più facile al cittadino trovare uniformità nelle prestazioni erogate e risposte più pronte. Per metterlo in pratica è necessario un accordo integrativo per la Medicina Generale della Regione.
In sostanza quello che si chiede è rendere i servizi disponibili 24 ore su 24 a tutti i cittadini. In questo modo i medici di base dovrebbero operare in sinergia con altri, facendo sì che la cartella clinica di ogni paziente sia condivisa. In questo modo, rientrerebbero tra le prestazioni concesse vaccinazioni, esami di 1° livello di tipo strumentale, campagne di screening e così via.