Una storia, l’ennesima, che evidenzia le difficoltà di fare ricerca in Italia arriva dalle pagine di Repubblica che racconta l’incredibile vicenda della dottoressa Sabina Berretta, scienziata catanese rifiutata dall’università anche come bidella e oggi direttrice della più grande banca di cervelli al mondo ad Harvard. Un cervello in fuga, è proprio il caso di dirlo, che ha dovuto lasciare il nostro paese per vedere riconosciuto il suo talento e poter fare ricerche essenziali anche per la nostra salute. La scienziata italiana infatti studia la schizofrenia e i disturbi bipolari, ma con il suo team porta avanti progetti scientifici essenziali per lo studio di malattie oggi incurabili, come l’Alzheimer. Capacità, spirito di sacrificio, passione, bravura: tutti requisiti che la dottoressa Berretta ha visto riconosciuti solo all’estero, dove è diventata una neurologa di grande successo, quando qui, in Italia, non l’hanno voluta neanche come bidella.
Di storie di cervelli in fuga dall’Italia ne sentiamo ogni giorno e ognuno di noi conosce qualcuno che ha preferito andare all’estero per realizzarsi o anche semplicemente lavorare. Non che viaggiare e fare esperienze fuori dall’Italia sia sbagliato in assoluto, anzi: per chi fa ricerca è essenziale perché la scienza è prima di tutto condivisione.
Quello che colpisce però della storia della dottoressa Berretta è la mancanza di possibilità a priori. Catanese, 56 anni, è partita per l’America a 29 anni grazie a una borsa di studio, direzione MIT di Boston, e da allora non è più rientrata in Italia perché sa di non avere le stesse possibilità che ha negli Stati Uniti.
La sua storia è simile a quella di molti altri giovani, spesso donne, che faticano a trovare il loro spazio nel mondo della ricerca e della scienza, un po’ per pregiudizi, un po’ per una mancanza cronica di fondi per la ricerca e l’Università. Pur avendo scoperto tardi la passione per la medicina, si è laureata con il massimo dei voti, specializzandosi in neurologia con lode: la passione per la ricerca è stata una costante anche durante gli studi e, una volta terminati, doveva diventare la sua vita.
Invece, lo faceva da volontaria: ore e ore in laboratorio a studiare il cervello umano e neanche un soldo. “Anche da laureata non c’era posto per me. In quell’istituto si liberava però un posto da bidello: pensai che poteva essere un modo per guadagnare dei soldi continuando a studiare. Dopo aver spazzato i pavimenti, insomma, potevo andare in laboratorio e proseguire le ricerche con uno stipendio su cui contare. Non vinsi nemmeno quel posto: eravamo troppi a farne richiesta”, racconta al quotidiano.
Il suo non era un caso: come lei, altri ricercatori fecero il concorso e oggi, una di loro, è una ricercatrice di fama, costretta a fare la bidella per pagarsi da vivere.
Per la dottoressa Berretta, la salvezza è stata una borsa di studio del CNR, quindi italiana, che le permise di andare all’estero. “Scelsi il Mit di Boston. Andò bene: scaduta la borsa, ero stimata e mi tennero. Era il 1990 e da allora non sono più tornata”, rivela. Sono passati anni e la giovane ricercatrice di allora è diventata una delle più importanti e stimate neurologhe al mondo, tanto da gestire la banca dei cervelli di Harvard.
Il problema rimane lo stesso, in tutte le storie simili alla sua. Non è tanto andare all’estero, che potrebbe essere anche solo un modo per fare nuove esperienze, è la necessità di dover fuggire per vedere riconosciuto il proprio talento in un Paese che costringe i suoi ricercatori a lottare per un posto da bidello pur di andare avanti. Una storia, questa sì, tutta italiana.
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