Liliana Segre, in una recente intervista da Fabio Fazio a Che Tempo che fa, ha detto che fra non molto la Shoah diventerà solo una riga da leggere nei libri di storia, e poi sparirà anche quella. Ma se il più grande genocidio mai avvenuto al mondo dovesse mai finire nel dimenticatoio delle prossime generazioni, che ne sarà del fascismo e di Benito Mussolini che in misura minore (ma comunque importante) ha favorito la deportazione degli ebrei dall’Italia?
Ecco: ricordare, fare memoria del passato per far sì che non si ripetano gli stessi errori è fondamentale, così come è importante capire cosa effettivamente è successo. Cent’anni fa, il 28 ottobre del 1922, l’insurrezione delle squadre fasciste, manovrate dal Duce e dai suoi quadrumviri, arriva a Roma per prendersi con la forza il governo italiano.
Di forza ne usano ben poca, perché tra sbagli e timori, il 30 ottobre Mussolini riesce nel suo intento di ottenere l’incarico per formare un nuovo esecutivo, dando inizio al ventennio e alla dittatura. Probabilmente, però, il fascismo non è iniziato quel 28 ottobre di cent’anni fa. Ne abbiamo parlato con Brunello Mantelli, ex professore di storia contemporanea all’Università di Torino e autore di diversi libri sul tema.
Quando possiamo veramente datare l’inizio del fascismo in Italia, professore?
Secondo me, il fascismo in Italia è iniziato nel 1914, dal formarsi del fronte interventista, meglio: del fascio interventista. All’epoca, il termine fascio non aveva alcun connotato negativo che ha assunto in un secondo momento: il fascio era il sinonimo di organizzazione. E quindi militanti e intellettuali che qualche mese prima si sarebbero scontrati in piazza trovandosi su sponde opposte, nazionalisti da una parte, sindacalisti rivoluzionari dall’altra, quindi dalla destra nazionalista alla sinistra socialista, di cui faceva parte Benito Mussolini, ma anche un pezzo del sindacalismo rivoluzionario, ora si mettono assieme e manifestano per entrare in guerra, dal 1915 sotto la guida di Gabriele D’Annunzio.
Poi, chiaro, la data canonica di fondazione del fascio mussoliniano rimane quella del 1919, non certamente il 1922, e non il 28 ottobre, che altro non è se non il giorno in cui è stato accordato a Mussolini il potere politico. La situazione che si viveva era certo di instabilità politica e sociale, generata dalla Grande Guerra. Le elezioni a suffragio universale maschile avevano dato come vincenti sia i socialisti, sia i popolari, cioè il PPI di don Sturzo. Socialisti e cattolici erano entrambi forze politiche fuori dall’asse risorgimentale e liberale che aveva governato dall’unificazione, ma tra loro non erano coalizionabili al tempo. La situazione era molto fragile dal punto di vista politico.
La marcia fascista su Roma, in quel contesto, diventa un’iniziativa che funziona innanzitutto, perché ai vertici dello Stato si accetta di fargliela fare, ai fascisti. Tecnicamente, infatti, non era mica un problema per le forze armate fermare i fascisti, il problema, piuttosto, è che è mancata la volontà politica: quando il capo del governo, Luigi Facta, giolittiano, chiede al re di decretare lo stato d’assedio, Vittorio Emanuele III si rifiuta, consigliato da un personaggio di peso come Armando Diaz, il maresciallo della vittoria del 4 novembre 1918. Così le squadre fasciste vengono lasciate arrivare a Roma, mentre se si fosse dichiarato lo stato d’assedio, le forze armate regolari avrebbero potuto fermarle.
Ci sono diverse ricostruzioni sul perché Vittorio Emanuele III decide di non controfirmare lo stato d’assedio del presidente Facta. Lei che opinione ha a riguardo?
Da un lato, c’è l’idea che i fascisti possano essere addomesticati, un’idea che ha anche Giovanni Giolitti, della serie “Se li lasciamo governare, si modereranno”. Un’idea sbagliata, chiaro, ma poteva avere una sua logica perché ci sono molti movimenti che nascono come sovversivi, ma che poi arrivati al governo si moderano perché in quel momento devi governare, e possono essere anche costituzionalizzati.
Dall’altro lato, poi, alcuni partono dal presupposto che i fascisti possano essere utili per portare ordine. Il problema è che, in realtà, succede l’esatto contrario: sono i fascisti che inglobano i conservatori, in parte li assorbono, in parte li mettono fuori gioco, non viceversa.
Se non ci fosse stata la marcia su Roma, su cui il Duce aveva riflettuto parecchio, crede che Mussolini sarebbe mai diventato il capo del governo?
Partiamo dal presupposto che la marcia su Roma, a differenza di quello che succederà in Spagna qualche anno più tardi, nel 1935, non è un colpo di Stato. La marcia è organizzata in modo militare, ma le squadre non avrebbero mai potuto vincere contro le forze armate regolari. Ci sono stati molti atti di violenza durante la “marcia”, ed anche scontri, con morti, a Roma, al quartiere San Lorenzo, ma non si è trattato di un colpo di Stato militare.
Senza la connivenza di parte delle istituzioni è abbastanza improbabile che Mussolini sarebbe riuscito a prendere il potere in un’altra maniera. Sia perché se il re avesse firmato lo stato d’assedio, sarebbe finito tutto là, a parte qualche decina di morti per strada, e se ne sarebbe usciti forse con un governo militare, sostenuto da forze politiche liberali e conservatrici, che avrebbe poi stabilizzato la situazione. Sia perché dubito che, in elezioni libere, ci sarebbe riuscito; comunque, quando Mussolini va al governo, è il leader di una forza indubbiamente minoritaria.
“Ha fatto anche cose buone, prima di allearsi con Adolf Hitler”: quanto è oggettivamente sbagliata questa frase?
Parecchio, soprattutto perché Hitler è il figlio di Mussolini: senza Mussolini niente Hitler, come prima cosa. Ovviamente, la Germania non è l’Italia e quindi il nazismo non è identico al fascismo, però è chiarissimo che il modello a cui si ispira Hitler, cosa che Hitler stesso più volte dichiarò, è Benito Mussolini. Ancora nel 1944, Hitler afferma che “Mussolini è un grande uomo, peccato che ha un popolo che non è alla sua altezza”. E quindi, sì, il nazismo si modella sul fascismo.
Per esempio, quando Hitler tenta, il 9 novembre del 1923, di prendere il potere a Monaco, in Baviera, per fare una marcia su Berlino, siamo a dodici mesi di distanza dalla marcia su Roma. Le cose in Baviera vanno tuttavia male, perché i conservatori, al tempo al governo, mandano la polizia che disperde i sovversivi, spara e arresta; Hitler finisce in carcere e decide allora di cambiare tattica, ma il modello a cui si ispira resta Mussolini e il suo regime.
Di fatto, poi, per tutti gli anni Venti, Mussolini è alla ricerca di un alleato che possa permettergli di far saltare l’ordine europeo nato a Versailles, suo obiettivo precipuo ma che, da solo, non ha la forza di realizzare. Mussolini cerca riferimenti in Germania, paese sconfitto nella Grande Guerra ma sviluppato e potenzialmente assai forte. All’inizio però punta sui conservatori tedeschi, cioè sul partito nazionaltedesco (Deutsch-nationale Volkspartei), anche perché il partito nazista (NSDAP) è fino al 1930 un partito che oscilla dal 2 al 4% dei voti alle lezioni. Le cose però cambiano nel 1930, in cui, in un contesto eccezionale, dovuto alla grande crisi economica e ad una conseguente crisi di governo, la NSDAP diventa ilsecondo partito con il oltre il 18%, con la SPD oltre il 1924. Allora Mussolini capisce di aver finalmente trovato una leva con cui far saltare l’ordine internazionale; lo avrebbe anche dichiarato.
Quanto alle presunte “cose buone” fatte dal fascismo: ogni regime, a prescindere dal colore, fa cose che sono frutto della spinta oggettiva alla modernizzazione; ci sono tendenze che travalicano le politiche dei regimi e che non possono non essere attuate. Che il fascismo abbia introdotto, in un modo per altro molto caotico, un sistema pensionistico dipese dal fatto che l’Italia sul punto in forte ritardo; il sistema pensionistico generalizzato c’era già altrove, da tempo, perché stava all’ordine del giorno. In Germania, per esempio, le pensioni di vecchiaia le aveva introdotte Bismark, un conservatore, mezzo secolo prima. Esattamente come in Gran Bretagna, dove i conservatori introducono misure di assistenza pubblica, perché se ci in un paese ci sono troppi poveri si crea un problema politico per le istituzioni. Non per caso Adam Smith, economista della sinistra liberale, avrebbe scritto che persone troppo povere sono alla ricerca di un padrone, e perciò diventano un pericolo per le istituzioni liberali e parlamentari.
Ironia della sorte, il centesimo anniversario della marcia su Roma cade pochi giorni dopo l’insediamento del primo governo Meloni, la prima ex missina a capo di un esecutivo. Nel discorso alla Camera, la premier ha detto che lei è sempre stata contro i totalitarismi, anche il fascismo. Eppure c’è ancora quella fiamma, nel simbolo del suo partito, a dimostrare che quel passato tanto passato non è. Che significa?
Prima di tutto va considerato che l’Italia è il paese di Pulcinella e di Arlecchino, della commedia dell’arte. Se Giorgia Meloni dichiara di essere sempre stata contro il totalitarismo, ammesso che sappia cosa vuol dire totalitarismo –concetto già di per sé fumoso – non è la prima ad aver fatto dichiarazioni a dir poco sorprendenti. A suo tempo sia Walter Veltroni, sia Piero Fassino dichiararono di non essere mai stati comunisti, eppure erano entrambi iscritti al PCI, e ne erano dirigenti. Io penso che tutti abbiano il diritto di cambiare idea, ma ecco: apprezzerei di più chi mi dicesse di esser stato effettivamente fascista, o comunista, o qualunque altra cosa, e che in seguito aveva cambiato idea, piuttosto di chi affermi di esser stato dirigente del MSI o del PCI senza però averne condiviso il patrimonio di idee. Siamo di fronte a dichiarazioni francamente ridicole.
Sulla fiamma che esce dal catafalco di Mussolini ancora presente nel simbolo di Fratelli d’Italia, invece, penso che sia un problema di simboli che è difficile mettere da parte. Partiamo dal presupposto che io non sono nella testa di Meloni e non so cosa lei pensi, ma posso pensare che lei magari la fiamma leverebbe pure, ma ha il problema di rispondere a una base elettorale, di militanti e sostenitori che a quella fiamma ci tiene, perché è un simbolo identitario. Quando si arriva al potere occorre dal qualcosa a chi ti abbia sostenuto, ma ai dirigenti di maggior calibro puoi dare incarichi e posti, da ruoli nel governo, a seggi in Parlamento, a incarichi di potere nelle strutture dello Stato, ma alla tua base cosa dai? Non hai molto di più da distribuire se non simboli, e allora ai più sfegatati fai fare le marce a Predappio, a tutti lasci un simbolo che mette insieme l’oggi con il passato. Ed è il simbolo di FdI. A breve termine è difficile venga cambiato.
Non dimentichiamo che FdI nasce dopo l’esperienza di Alleanza nazionale di Gianfranco Fini, confluita poi nel Popolo della Libertà di Berlusconi e successivamente alla meteora del finiano Futuro e Libertà, quindi nasce per riprendersi un terreno identitario a destra che aveva rischiato di essere fagocitato da Berlusconi, e quindi per dar vita a FdI probabilmente era indispensabile riappropriarsi dei simboli storici che AN, PdL e poi FeL avevano messo da parte.
Quanto al presidente del Senato, Ignazio La Russa: qualche giorno fa, c’è stata una polemica sull’immagine del Duce al Mise, a cui il co-fondatore di FdI ha risposto dicendo che c’è anche al ministero della Difesa e che non si deve fare cancel culture. Cosa ne pensa?
Francamente la polemica mi è parsa un po’ pretestuosa perché il ritratto di Mussolini, se sta in posti in cui ha avuto ruoli, può avere un suo senso. Ovviamente se è contestualizzato. In Portogallo all’Università di Coimbra c’è un ritratto di Antonio de Oliveira Salazar, che fu professore lì a Giurisprudenza. Si può ragionare, si può contestualizzare, si può togliere. Mi preoccupa di più che a Roma ci sia un piazzale dedicato a Giulio Dohuet, generale italiano teorico del bombardamento terroristico contro le città come mezzo per piegare il morale del nemico. E ciò prima dell’avvento del fascismo. In ogni caso non mi coinvolgono molto le battaglie sul simbolico, come la querelle scatenatasi sui nomi dei ministeri.
Ovvero?
Fermo restando che a me non piace la pratica italiana di cambiare i nomi e poi lasciare le cose come stanno, la decisione di aggiungere alla denominazione del ministero dell’Agricoltura la dizione “e della Sovranità alimentare” avrebbe dovuto non essere contestata in sé, ma semmai criticata sottolineando che l’importante sia il fatto che tutti quelli che lavorano nell’agricoltura debbano avere un giusto salario e una giusta remunerazione, dal bracciante al contadino piccolo proprietario. questo vuol dire che i braccianti, i piccoli imprenditori devono essere pagati il giusto. Poi, francamente capisco poco chi si e indignato per il nuovo nome e poi fa campagne perché si acquisti dai produttori di area e propaganda i prodotti a km 0, cosa in sé più che giusta, ovviamente. Sia chiaro, la nuova denominazione è ambigua, sembra alludere al sovranismo e all’autarchia, ma anche in Francia il ministero analogo si chiama così. Di per sé non è neanche una brutta idea rendere l’Europa più indipendente dal punto di vista agricolo e tecnologico; abbiamo scoperto, con la guerra in Ucraina, che gran parte del grano proveniva da là, per cui sì, se riusciamo a ridurre, sia a favore di chi consuma, sia di chi produce beni alimentari la dipendenza da aree extraeuropee non del tutto affidabili, e se riusciamo a far fare meno strada ai cibi è sicuramente meglio. Insomma, non si polemizzi sul nome, si entri nel merito della cosa.
Ecco, a proposito di merito, una polemica è nata anche per il nome del ministero dell’Istruzione.
Anche lì vale a mio parere lo stesso discorso. Come ha scritto Chiara Saraceno, il merito è categoria democratica, se lo contrapponiamo a privilegio e a status acquisito per appartenenza familiare. Ma dobbiamo allora dare a tutti le stesse possibilità di realizzare i talenti che posseggono. Investiamo nell’istruzione, rendiamola sul serio gratuita o pressoché gratuita, e poi puntiamo pure sul merito. Sennò è una presa in giro.
Si è parlato anche di passi indietro sui diritti, secondo lei ce ne saranno?
Prima di tutto la questione è l’accessibilità dei diritti. Se io concedo un diritto ma poi non lo rendo accessibile a tutti, di fatto quel diritto è vanificato. Prendiamo ad esempio la legge 194; quella legge mica obbliga nessuna donna ad abortire! Però se si permette a medici ed infermieri di fare obiezione di coscienza restando in servizio si vanifica il diritto pur sancito dalla legge. A mio parere l’obiezione di coscienza, per essere una cosa seria, deve avere un costo. Se sei un ginecologo e fai obiezione di coscienza non devi poter lavorare in un reparto ginecologico di un ospedale pubblico, o vai nel privato, o vai un un altro reparto, al Pronto Soccorso, a medicina, a chirurgia, ma non puoi restare a ginecologia. Sennò si creano situazioni ridicole, come il medico ginecologo obiettore che magari diventa primario del reparto. Un po’ come un non violento contrario a portare armi che pretendesse di diventare generale dell’esercito! Le scelte etiche vanno rispettate, ma se fai una scelta etica contro una legge dello Stato un prezzo anche minimo lo devi pagare.
Cosa la preoccupa, in sintesi?
Quello che mi preoccupa non sono tanto parole o atti simbolici, ma sono gli atti concreti del governo. Il fatto che abbia esordito annunciando una serie di misure, come quella sull’uso del contante o la rottamazione delle cartelle esattoriali, è a mio parere il problema più grave. Sembra quasi che vogliano favorire le catene produttive meno efficienti, quelle che campano sul lavoro in nero, sull’evasione fiscale e sui bassi salari. Ed un nodo cruciale, perché sarebbe una scelta che porta ancora di più alla decadenza dell’Italia e del suo sistema economico, che da anni conosce uno scarso, se non nullo, aumento di produttività.
Il governo italiano, a prescindere dal colore, dovrebbe incentivare i settori produttivi che innovano, producono lavoro “buono”, stabile e ad alta qualifica e che quindi ridistribuisce ricchezza. Non ha senso puntare troppo sul turismo, settore a bassa intensità di capitale, poco capace di innovazione e caratterizzato da bassi salari e precarietà. Ovvio che in un paese come l’Italia il turismo possa e debba avere un ruolo, ma non può essere il settore trainante; bisognerebbe semmai puntare sull’industria e sull’agricoltura avanzate, che creino occupazione stabile e ben retribuita.