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Intervista a Pupi Avati, vincitore del Premio Milano per la musica: ”Avrei voluto fare il musicista”

Per un regista, ricevere il prestigioso “Premio Milano per la musica – Consorzio Buenos Aires” – attribuito negli anni passati a personaggi quali Ennio Morricone, Stefano Bollani e Maurizio Pollini – dev’essere un’emozione del tutto particolare. Soprattutto se, nonostante l’artista in questione sia un regista affermato considerato tra i più bravi del Paese, la musica è sempre stata il suo pallino, tanto che in origine il sogno era proprio quello di diventare un musicista di professione. Non è andata così, ma ha comunque realizzato numerosi film sulla musica ed essa è sempre stata presente in maniera importante nella sua cinematografia.
Mentre esce nelle librerie con il suo primo romanzo “Il ragazzo in soffitta” – che dimostra ancora una volta il suo eclettismo – e dopo aver ricevuto il premio il 15 marzo presso il Teatro Filodrammatici di Milano, Pupi Avati ci rilascia questa intervista per parlare appunto del suo primo grande amore, la musica, e di molto altro.

Qual è lo stato d’animo con cui riceve questo Premio per lei alquanto speciale?

“Nel mio caso specifico è un premio rivolto a chi la musica l’ha sempre amata, tuttora la ama e la considera al centro della propria esistenza e creatività, pur non essendo da essa riamato. Devo confessarle che io mi ritengo un musicista mancato, contrariamente ad alcuni amici con i quali ho condiviso una parte del viaggio e del percorso dentro la musica – penso a Lucio Dalla, tra gli altri. Io, invece, mi sono dovuto arrendere ai limiti del mio talento e diventare quindi un fruitore di musica altrui, o al massimo un cineasta che utilizza la musica come fondamento di ogni suo film. Ho allora trovato soddisfazione attraverso le colonne sonore, ad esempio collaborando con musicisti quali Riz Ortolani”

Se dovesse descrivere la musica con parole sue?

“La musica è la forma d’arte più nobile in assoluto, la più astratta e personale, perché ogni brano che ascoltiamo è parte della proposta musicale, ma parte anche dello stato d’animo con il quale noi lo recepiamo. È anche qualche cosa che in natura non esiste, dunque il frutto della creatività massima di un essere umano: noi ci siamo trovati davanti, spesso già pronte, le storie, le vicende da raccontare, ma non ci siamo trovati la musica. È per questo che essa è in grado di produrre un sentimento assolutamente ineffabile”

Ma lei, che musica ascolta?

“Ogni volta che mi trovo nella condizione di scrivere un copione, una storia o un libro, c’è sempre una colonna sonora ideale, che cambia anche di molto a seconda di ciò a cui sto lavorando. Ora, ad esempio, mentre ho scritto il mio primo romanzo “Il ragazzo in soffitta”, la colonna sonora era l’adagio della settima di Anton Bruckner. I generi che più amo in ogni caso sono il jazz e la musica classica, mentre non ho mai saputo apprezzare la lirica, ad eccezione di Debussy”

Le capita mai, mentre sta immaginando una nuova storia da scrivere o da filmare, di pensare che tutto quanto di bello e veramente importante c’era da dire è già stato detto e fatto nel migliore dei modi da altri prima di noi? Come dire, ha ancora senso parlare d’amore dopo Shakespeare?

“Fortunatamente non ho questo tipo di inibizione, perché sono convinto che ognuno di noi abbia una sua identità propria e particolare, ovverosia ogni essere umano è qualcosa di assolutamente unico, eccezionale e di conseguenza non potrà mai esistere qualcuno prima che abbia saputo rappresentare lo stesso sentimento o emozione nello stesso identico modo. Lei, io, siamo tutti una sorta di eccezione, di anomalia del sistema; ecco perché un’identica storia d’amore raccontata da lei e raccontata da me diventa due storie completamente diverse: il tono di voce e la calligrafia cambiano sostanzialmente, lo sguardo che può avere lei sulla stessa vicenda è differente dal mio. Perciò, io questo problema del peso del passato non lo vivo mai”

Che cosa pensa dell’arte contemporanea, intesa nel senso più ampio del termine?

“Assomiglia purtroppo molto alla realtà che ci circonda: l’Italia si è spogliata di una sua precisa identità e l’omologazione mondiale, aiutata dai mezzi di comunicazione, ha fatto sì che ci assomigliamo tutti sempre di più. Oggi è difficile trovare una personalità in grado di emergere davvero come accadeva anni fa. Il cinema che si fa ora in Italia è – a parte rarissime eccezioni – un cinema di consumo, interessato a guardare più al grande pubblico che non all’originalità”

È una visione un po’ malinconica, forse nostalgica…

“Probabile, ma vede, secondo me ogni mezzo di espressione possiede una propria vita biologica che lo porta a nascere, arrivare al suo apice e poi da lì comincia il declino. Lo abbiamo visto con la musica classica: è evidente che una volta giunti a Mozart o a Beethoven, tutto quello che è accaduto dopo vale di meno, così come in letteratura dopo Joyce credo che sia tutto un rimescolamento, mentre nella pittura dopo Michelangelo e Raffaello non ci sono uguali”

Un’ultima domanda: a quali progetti sta lavorando al momento?

“Sto realizzando un mediometraggio sulla storia del treno e su come esso abbia inciso nella crescita sociale e culturale del nostro Paese nell’ultimo secolo. È un progetto che abbiamo studiato insieme alle Ferrovie dello Stato in occasione dell’Expo”

Chiara Giacobelli

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