Il libro “Io, morto per dovere” propone la storia di Roberto Mancini, il poliziotto che per primo scoprì il traffico illecito di rifiuti che ha generato la cosiddetta terra dei fuochi. Ma qual è la vera storia dell’uomo che ha anche ispirato la fiction di RaiUno, “Io non mi arrendo”? Lo abbiamo chiesto al giornalista Nello Trocchia, autore, insieme al collega Luca Ferrari e alla moglie di Mancini, Monika Dobrowolska, del libro pubblicato da Chiarelettere.
Chi era Roberto Mancini?
Roberto Mancini è stato un investigatore di grandissimo livello, che già nei primi anni Novanta è arrivato al dominus del traffico illecito di rifiuti, quello che oggi la Procura di Napoli reputa l’inventore delle ecomafie in Campania, cioè l’avvocato e imprenditore Cipriano Chianese.
Nonostante il pentito Nunzio Perrella avesse illuminato un po’ magistrati e opinione pubblica con la frase “La monnezza è oro e la politica è una monnezza”, quelli erano anni in cui era molto complicato parlare e occuparsi di spazzatura. Lo stesso Roberto ricordava come gli lasciassero delle cartacce sulla scrivania per schernirlo.
La sua straordinaria capacità fu di ricostruire l’intera rete criminale che faceva affari sull’intermediazione di pattume, soprattutto industriale, e che aveva come destinazione alcune aree della Campania e in particolare alcune discariche che erano state autorizzate grazie alla connivenza della politica.
Il vero dato che ci restituisce la lungimiranza del suo lavoro è nell’informativa che depositò nel 1996 presso la Procura di Napoli: c’erano tutti i nomi che fanno parte di quella che è una storia di ecomafie, dove i responsabili principali sono imprenditori, intermediari, professionisti, politici e, in ultima istanza, manovalanza criminale, che garantiva la copertura territoriale e steccava sui rifiuti smaltiti.
Quell’informativa morì nei cassetti per incuria, disattenzione, sottovalutazione, per assenza di un quadro normativo, ma anche perché – soprattutto all’epoca – si identifica la criminalità organizzata esclusivamente con ammazzamenti, omicidi e traffico di droga. Il traffico di rifiuti, invece, è un grande settore di business, perché prevede un’altissima remuneratività e il bassissimo rischio penale.
Tutto questo Roberto l’aveva capito e aveva capito chi erano i responsabili, aveva fatto nomi e cognomi, aveva scritto un’informativa che aveva bisogno di essere letta e soprattutto di avere un seguito.
Roberto, che aveva un’ottima penna e che aveva una formazione notevole, ascoltava i rapporti dei suoi uomini ma poi li scriveva di suo pugno e seguiva tutto in prima persona: ascoltava anche la quotidianità, le giornate di intercettazioni e raccordava tutto il lavoro. Così riusciva a mettere in fila pezzi che sembravano sconnessi tra loro.
Roberto raccontò a Luca Ferrari, che ha scritto con me il libro, che quell’informativa fu sottovalutata anche perché non era il tempo e forse chi la lesse non volle prendersi la responsabilità di sottoporre l’annoso tema dell’inquinamento, che poi sarebbe esploso per alcune aree della Campania più avanti.
Resta il fatto che quell’informativa è rimasta sepolta ed è stata riscoperta soltanto nel 2011, ben 15 anni dopo, quando è stata inserita negli atti del processo in corso contro alcuni soggetti individuati da Roberto all’epoca.
Questa è l’ultima parte della sua vita, ma nel libro raccontiamo anche quella precedente, quando lavorava alla CriminalPol a Roma e si occupava di una Roma capitale dei latitanti. In un capitolo, infatti, facciamo anche questo parallelo, usando le indagini che realizzò, con la Roma di MafiaCapitale che ha le stesse caratteristiche di allora. Anche qui, il tratto distintivo è un potere, soprattutto quello dei Prefetti che per anni, ieri e oggi, hanno sottovalutato le organizzazioni criminali sulla Capitale.
Poi c’è l’uomo. Un grandissimo investigatore, profetico in questo settore, ma anche molto amato dai suoi colleghi. Veniva dal movimentismo degli anni Settanta, avendo vissuto una parte importante della sua adolescenza nei collettivi studenteschi, e non ha scelto la strada della violenza, ma quella delle battaglie per migliorare questo Paese, portando i suoi ideali e la sua passione all’interno della Polizia. Da sindacalista, non si è mai voluto piegare ad alcun tipo di compromessi. Raccontava sempre che c’erano due cose che il Signore aveva sbagliato: le mosche e i dirigenti. Con loro litigava sempre, perché difendeva a spada tratta i colleghi e ha provato fin dall’inizio, pagandolo sulla propria pelle, a democraticizzare la Polizia.
Alla fine ci ha rimesso del suo.
Ci ha rimesso la vita. Si è ammalato di tumore ed è morto di quella malattia. È morto per il dovere e non solo perché c’è stato il riconoscimento, da parte del ministero dell’Interno, della malattia professionale. Roberto si è portato il lavoro anche in ospedale e dal suo letto, poche ore prima di morire, ha continuato a scrivere alcuni appunti di un’informativa che stava realizzando per il PM Alessandro Milita, che oggi è la pubblica accusa nel processo a carico di Chianese. Si è sempre portato dietro la voglia di restituire alla giustizia i responsabili di questa mattanza ambientale. Lui, con i suoi sopralluoghi, prima con la CriminalPol e poi con la Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti della Camera dei Deputati, ha respirato l’inimmaginabile e si è ammalato.
Nel libro riveliamo che, oltre a Roberto, ad ammalarsi e a morire di dovere ci furono altri tre componenti della sua squadra. Il tumore lo ha vinto ma Roberto ha lasciato molti semi che dobbiamo far germogliare: ci lascia una capacità di guardar al futuro anche quando la morte era vicina. C’è una scena che amo raccontare che dimostra chi era Roberto. Quando lo va a trovare un suo collega e amico, lo invita a non pensare più alla Terra dei Fuochi, ai trafficanti di veleni che avevano smaltito illegalmente e che forse avevano vinto la loro battaglia, visto che non erano neanche stati inquisiti, Roberto risponde piccato, a modo suo, da testardo, a volte con le cattive maniere, che non si risparmiava battute anche taglienti se era il caso. “Ti stai ad amalgamare, non è finito un cazzo”, disse e poche ore dopo morì. Questa è la testimonianza di chi fosse Roberto Mancini. Anche Monica, la moglie, sottolinea che avrebbe voluto un’attenzione e un risarcimento da parte della Camera dei Deputati, che non ci è stato, ma un risarcimento vero anche verso il Paese, sarebbe restituire i responsabili alla giustizia.
La moglie di Roberto ricorda questa vicenda più con rabbia o con orgoglio?
La moglie ricorda questa vicenda con il grandissimo orgoglio di essere stata la compagna di una persona straordinaria e che lo era anche nella sua ironia e nella sua normalità. Monica racconta che, quando sentì di essere stato definito un eroe, si mise in mezzo alla sala, aprì le braccia e disse: “Peccato che ho dimenticato il mantello in tintoria”.
Ma sicuramente c’è anche la rabbia, che poi era la rabbia di Roberto: quella di un’informativa sepolta in Procura e la rabbia per una Camera dei Deputati disattenta a questa vicenda.
C’è altro: Roberto è morto senza aver ricevuto una sola telefonata dai vertici della Polizia, come raccontiamo nel libro.
Anche tu hai ricevuto minacce e soprattutto un’intercettazione telefonica preoccupa circa la tua sicurezza. Eppure continui il tuo lavoro…
Io faccio il cronista e racconto il crimine. Se poi, nel fare il tuo lavoro, racconti persone che poi vengono condannati, allora ti arrivano le minacce: io ho fatto solo il mio dovere, come fanno altri giornalisti, io do solo le notizie, racconto quello che so.
“Io, morto per dovere”, però, è anche un libro inchiesta…
Sì, è un libro-testimonianza ma anche d’inchiesta: abbiamo dedicato un intero capitolo all’informativa, con i nomi e i cognomi indicati da Roberto, e raccontiamo cosa fanno oggi questi soggetti. Molti di loro, infatti, sono ancora operativi e si occupano ancora di rifiuti. Per la prima volta poi pubblichiamo l’ultima informativa di Roberto Mancini, 20 pagine con altri nomi in contatto con il dominus dell’ecomafia Cipriano Chianese.
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