Continuano le proteste in Iran, ma nel frattempo continuano anche le violenze sulle donne. Di recente, infatti, ha iniziato a girare un video: un soldato ha picchiato una donna in pieno centro a Teheran. Il regime, insomma, sembra non voler fare alcun passo indietro.
Le proteste in Iran continuano, eppure gli atti violenti contro le donne non accennano affatto a smettere. Anzi. Continuano incessantemente, immotivatamente. Nulla si sta muovendo verso la direzione della libertà femminile a quanto pare. Quanto ancora durerà questa situazione?
Finalmente abbiamo smesso di vedere quello che accade in Iran così lontano da noi. Abbiamo smesso di definire distante qualcosa solo perché geograficamente lo è. Abbiamo riconosciuto che, a prescindere dalla provenienza, dalla religione, dalla cultura, gli essere umani sono esseri umani e vi sono alcune leggi non scritte che dovrebbero essere applicate a prescindere e non dovrebbero essere tollerate mai.
L’Iran dista migliaia di chilometri dall’Italia: nel mezzo ci sono altre nazioni, ma soprattutto c’è un mondo, fatto di sharia, di hijab, di repressioni. Scavando a fondo possiamo trovare lotte finite male, ribellioni mai considerate e un regime che ha sempre cercato di sopprimere ogni forma di contestazione.
Quello che è accaduto negli ultimi mesi è molto semplice (ma in realtà anche molto complesso): ad un tratto l’Italia – come gran parte dell’Occidente – ha aperto gli occhi e ha guardato per la prima volta davvero tutto quello che c’è al di là dei suoi confini. Si è accorta – e per la prima volta si è accorta davvero – che le “sue” donne sono le privilegiate in un mondo in cui ve ne sono altre uccise solo per il “mal velo”. Ha capito che forse – anzi sicuramente – quelle donne sono solo state meno fortunate delle sue, non hanno nulla di più, né di diverso. E, soprattutto, ha iniziato a considerare l’idea che tutto il mondo dovrebbe muoversi per poter cambiare qualcosa, perché per sradicare una cultura le cui radici sono così profonde è necessario un segnale forte.
Ma sia chiaro: la morte di Mahsa Amini – la 22enne uccisa per aver indossato male il velo – non è stata la miccia che ha acceso le rivolte, perché è stata più che altro la benzina su un fuoco che però era già ardente. E, infatti, a testimonianza di ciò, allo slogan ormai celebre ovunque “Jin, jiyan, azadi” (“donna, vita, libertà”), che è diventato ormai il simbolo delle proteste, se ne aggiunge un altro, soprattutto tra i giovani, “Morte al dittatore”, con chiaro riferimento ovviamente ad Ali Khamenei, l’attuale Guida Suprema dell’Iran. Tutto il regime è contestato insomma ormai: è tutto l’establishment politico che potrebbe subire dei cambiamenti in pratica. Attenzione: potrebbe, perché di fatto non vi è stato alcun progresso significativo.
Ad oggi, mentre le proteste aumentano – e ormai sono costanti in tutto il Paese – sembra che il regime non abbia fatto neanche un passo indietro. Anzi, neanche mezzo. La sua posizione è sempre rimasta la stessa sulle donne, sulle minoranze (quelle curde, ad esempio). Basti pensare che quando solo un mese fa, quando l’Iran è stato rimosso con effetto immediato dalla Commissione sullo status delle donne, il portavoce del ministero degli Esteri della Repubblica islamica, Nasser Kanani, definì questa iniziativa “un’eresia politica che scredita questa organizzazione internazionale e crea anche una procedura unilaterale per futuri abusi delle istituzioni internazionali”.
E in tutto questo marasma, altre immagini di violenze stanno comparendo: a Teheran una donna è stata aggredita da un poliziotto.
Teheran. Siamo in pieno centro, è sera, ma la strada è affollata. Del resto, non siamo in periferia e, come tutte le grandi città, c’è sempre gente. Guardando quella via gremita, vedendo le persone passeggiare, sembra quasi che tutto quello di cui abbiamo appena parlato non sia mai esistito, che viga l’armonia. Ma poi basta zoommare bene e notare che le donne hanno qualcosa di diverso dagli uomini: il velo. E la mente torna subito a Mahsa, alle ribellioni, alla repressione.
A scuotere ulteriormente la situazione ci pensa un militare – appartenente molto probabilmente al regime degli Ayatollah, ovvero il “Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche” (IRGC) – che vede una donna camminare sola, la raggiunge, la picchia. L’uomo era in uniforme, che nei Paesi occidentali è segno di “difesa”, di “sicurezza” (ma neanche sempre). In Iran, però, è diverso, perché per le donne è molto difficile sentirsi protette da un regime che, per primo, le si ritorce contro.
Ma è proprio il suddetto Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche al centro del dibattito oggi (accanto alle esecuzioni): il mondo chiede infatti di inserirlo nell’elenco delle “organizzazioni terroristiche”, ma anche in questo caso l’Iran minaccia di intraprendere “azioni di ritorsione”, come ha chiaramente affermato il ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian. Di che tipo di ritorsioni si tratta? Lo ha aggiunto lui stesso: “L’azione dell’Iran potrebbe consistere nel ritiro dal Trattato di non proliferazione (Tnp) o nell’espulsione degli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea)”. E non solo, perché pare che il parlamento iraniano stia cercando di capire anche come designare “elementi degli eserciti degli Stati europei come terroristi”.
In sostanza il tempo passa, le ribellioni aumentano, ma nulla cambia davvero. Perché questo avvenga ci vuole molto di più.
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