Jobs Act un anno dopo, cosa è cambiato con la riforma del lavoro

Roma, presidio degli operai dell'Alcoa

Sul Jobs Act e sull’articolo 18 si sono versati fiumi di inchiostro. Matteo Renzi è riuscito nell’intento di legare il suo nome alla riforma del lavoro, sfidando opposizioni interne ed esterne al PD e soprattutto i sindacati che sono scesi in piazza senza riuscire a bloccare l’iter della legge, in vigore dal marzo 2015. Il nuovo mercato del lavoro, creato dal d.lgs. 23/2015 e dai successivi decreti attuativi, è molto diverso rispetto a quello che l’Italia ha conosciuto per decenni, ma cosa è cambiato davvero in questo primo anno? A fare il punto della situazione è Mauro Mollo, giudice del lavoro presso il Tribunale di Torino nella rubrica “La parola del giudice” per torinero.it, che parla di una possibile nuova precarietà insita nel sistema.

A cambiare, secondo il giudice Mollo, è stato lo stesso concetto di precarietà che fino al Jobs Act era inteso in contrapposizione al classico posto fisso, nel pubblico come nel privato. Il secondo decreto attuativo ha attuato quella che Mollo definisce una “rivoluzione copernicana” in particolare per le tutele sul licenziamento.

Dopo che, per circa quarant’anni, la protezione che l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (approvato nel 1970) garantiva contro i licenziamenti illegittimi per i dipendenti di imprese con più di 15 dipendenti nella stessa unità operativa (o più di 60 nel territorio dello Stato) sono rimaste sostanzialmente invariate, nel giro di pochi anni tutto è mutato radicalmente“, rileva il magistrato.

Il cambiamento era già iniziato con la riforma Fornero ma è con il Jobs Act che è entrato nel vivo, togliendo di fatto l’articolo 18 per tutti gli assunti dopo l’8 marzo 2015. L’obiettivo della riforma era “rendere la reintegrazione un evento eccezionale“, prevedendolo per i licenziamenti nulli e per quelli sorretti da un motivo soggettivo (cioè per condotta illecita del lavoratore ma solo se il fatto contestato è insussistente. La riforma del lavoro di Renzi ha così creato una nuova categoria dei lavoratori, gli “assunti dopo l’8 marzo 2015, per i quali la reintegra non è sostanzialmente prevista, se non in casi eccezionali“.

Dopo un anno e un lungo dibattito, “gli obiettivi che la riforma si prefiggeva (ridurre il contenzioso e aumentare
i posti di lavoro a tempo indeterminato) appaiono essere stati in qualche modo raggiunti
“, scrive il giudice che contesta “lo strumento utilizzato” per arrivare ad avere meno cause di lavoro. “Se le cause sono poche, è anche per il fatto che i rischi per l’azienda nel caso di giudizio sono normalmente del tutto esigui“, ricorda Mollo. “Nella maggior parte dei casi, si tratta di pagare due mesi per ogni anno di lavoro (minimo quattro mensilità), e ciò significa che al lavoratore conviene spesso accettare una transazione per una somma modesta che rischiare di perdere la causa, inseguendo l’obiettivo della reintegra“.

Se è vero che i posti di lavoro a tempo indeterminato sono aumentati con circa 800.000 nuove assunzioni, lo è altrettanto che “nella statistica si tiene conto anche dei rapporti di lavoro precari convertiti“, quindi non nuovi posti di lavoro ma contratti per posti già esistenti. “Si tratta inoltre di dati “dopati” dalla totale decontribuzione per i nuovi contratti a tempo indeterminato, prevista per il 2015“, fa notare il magistrato.

La lotta alla precarietà non è stata ancora vinta. “Se prima l’assunzione a tempo indeterminato (da parte di una grande impresa o di un ente pubblico) significava il “posto fisso”, perché un licenziamento illegittimo comportava la reintegra, ora si è visto che non è più così. E, paradossalmente, le sanzioni previste dalle norme dei contratti “precari” (a termine, somministrazione di lavoro, ecc.) sono più severe rispetto a quelle previste per i licenziamenti illegittimi e comportano, di norma, la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato“.

È ancora troppo presto per capire in che modo il Jobs Act e l’addio all’articolo 18 abbiano rivoluzionato il mercato del lavoro e per comprendere come si assesterà la giurisprudenza. Al momento, secondo il giudice Mollo, “l’idea che ormai siano considerati “precari” anche i lavoratori a tempo indeterminato si sta facendo strada“, come se “la (dichiarata) volontà di abbattere la precarietà, incentivando il ricorso al contratto a tempo indeterminato anche attraverso la riduzione delle tutele contro i licenziamenti illegittimi“, abbia reso la precarietà insita nel sistema.

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