Le nostre scelte quotidiane hanno un impatto sul pianeta. Chi dice il contrario non ha mai aperto una statistica o uno studio negli ultimi vent’anni. Quello che mangiamo non ha solo reso tutte le industrie legate all’allevamento la maggiore causa d’inquinamento e sfruttamento di risorse del mondo, ma ci ha anche permesso di capire che tutto quello che abbiamo nel piatto ha una provenienza e una storia, prima di essere semplicemente del cibo. Senza per forza diventare dei talebani, trasformando l’atto del mangiare in un incubo senza fine, basterebbe essere consapevoli che viviamo di mode, anche per quanto riguarda gli alimenti, e che tutto questo ha un prezzo, non solo economico.
Se non siete spaventati dal costo altissimo di un avocado e quindi rientrate in quella fortunata fetta della popolazione che può permettersi di pagarlo quasi dieci euro al chilo, sappiate che, da qualche giorno si può tranquillamente parlare di avocado della discordia. Prima era stato il turno della quinoa: da cibo di cui non si poteva fare più a meno per avere un corretto apporto di proteine, è diventato il baluardo di moltissime campagne denigratorie nei confronti della dieta vegana (come se un vegano potesse nutrirsi solo di quinoa, ma questo è un altro discorso). Adesso il nuovo protagonista, ingrediente alla base di veri e propri concept store in quasi tutto il mondo occidentale, è l’avocado. Sembra che gli unici grassi non saturi si possano ricavare da questo frutto, tipico del Sudamerica: basta aprire una pagina Facebook per trovare centinaia di post che elenchino le sue infinite proprietà benefiche. Insomma, sembra che a mangiare avocado tutti i giorni si stia meglio. Noi forse, ma non è detto che valga lo stesso per chi, quel frutto, lo produce.
Da dove viene l’avocado? È un frutto originariamente coltivato nell’America centrale. Il Messico è uno dei più grandi produttori a livello globale, ma è anche tipico di posti sempre molto lontani da noi, con un clima favorevole alla crescita della pianta, come l’India occidentale. Alla crescente domanda di produzione si sono affiancate anche altre aree del mondo, soprattutto quelle con temperature tropicali, o molto caldo, come il Cile. Ed è proprio qui la pietra, o meglio, il frutto dello scandalo. Poche settimane fa il Guardian ha pubblicato un articolo dove denunciava come l’ossessione inglese per l’avocado stesse causando enormi problemi ambientali in Cile, in particolare nella zona di Petrorca, principale fornitore (circa il 67% del totale) per le grosse catene di supermercati britanniche, e non solo. In un anno la domanda è cresciuta del 27% nel solo Regno Unito, e questo squilibrio ha convogliato la maggior parte dell’acqua della regione nella produzione, costringendo la popolazione locale a vivere grazie a delle cisterne idriche fornite dal governo.
Secondo il Water Footprint Network, per produrre un chilo di avocado sono necessari circa duemila litri di acqua. Nell’articolo, Rodrigo Mundaca, agronomo e attivista denuncia: “Ogni ettaro coltivato richiede ogni giorno circa 100.000 litri d’acqua, che corrisponde a quella che userebbero migliaia di persone al giorno”. Gli ambientalisti denunciano anche il fatto che l’acqua delle cisterne spesso non sia sufficiente e che si debba decidere tra cucinare o lavare, tra andare in bagno in buche scavate nel terreno o in buste di plastica, mentre le compagnie produttrici guadagnano sempre di più con lo sfruttamento delle risorse idriche. Oltre ai danni all’ambiente e alla biodiversità della zona, per la maggior parte dei piccoli agricoltori è diventato impossibile coltivare le proprie terre. Il risultato? L’abbandono graduale della zona da parte di chi vi aveva sempre vissuto, per cercare di costruirsi una vita altrove.
Non è certo un solo prodotto la causa dell’inquinamento globale. A turno, la stragrande maggioranza dei cibi diventati una moda sono stati oggetto di ridimensionamenti e scandali dal punto di vista etico per lo sfruttamento del lavoro e delle risorse per produrlo. È proprio il credere di poter avere sempre tutto a disposizione senza nessuna conseguenza che deve essere messo in discussione. I metodi per arginare questi problemi ci sono già: far rispettare le leggi a chi produce, far controllare più nel dettaglio la catena produttiva, e informare, come è stato reso obbligatorio già da tempo con le etichette sulla provenienza, nel giusto modo i consumatori, che potranno così decidere se hanno davvero bisogno di mangiare un frutto che fa il giro del mondo per arrivare sulla loro tavola.
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