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L’eredità di Barack Obama: che paese lascia il primo presidente afroamericano?

Con l’elezione del 45esimo presidente degli Stati Uniti, Barack Obama saluta la Casa Bianca dopo 8 anni, ma quale eredità lascia al suo successore? La sua doppia presidenza ha rappresentato una svolta epocale per gli Stati Uniti e in particolare per la comunità afroamericana che ha visto un suo rappresentante salire la scala politica-sociale fino al massimo potere. Quale sarà il giudizio della storia, Obama sarà comunque il primo presidente afroamericano, il primo ad aver sconfitto i pregiudizi razziali in un paese che ancora oggi deve fare i conti con il suo passato razzista. Il suo “Yes we can” ha cambiato la politica americana e ha creato le basi di un nuovo sogno americano, in alcuni casi distrutto nel confronto con la realtà. La sua presidenza ha avuto molte luci ma anche ombre pesantissime: eccone alcune.

Figlio di una coppia mista, nato alle Hawaii e cresciuto dagli amatissimi nonni materni, Barack Hussein Obama è stato il presidente che ha infranto uno dei più grandi tabù dell’America puritana e razzista, arrivando da uomo di colore a guidare la più grande potenza del mondo occidentale. Nobel per la Pace nel 2009 a un anno dalla sua prima elezione, è stato uno dei presidenti più amati ma anche tra i più criticati dagli avversari e da alcuni sostenitori della prima ora che gli contestano il non aver realizzato in pieno il suo progetto politico. Qual è l’eredità di Obama?

Partiamo da un’eredità reale, anche se virtuale. Come ha chiarito la Casa Bianca (qui tutti i dettagli), il suo successore avrà i profili social creati nel corso delle due presidenze, mantenendo tutti i followers. Non ci saranno i contenuti dell’era Obama, che saranno conservati nel National Archives and Records Administration (NARA), in quella che è la prima transizione digitale completa della storia americana.

Chi entrerà alla Casa Bianca, avrà così accesso ai 7 milioni di like della pagina Facebook The White House, 12 milioni di follower dell’account Twitter @whitehouse, a cui si aggiungono gli 11 milioni di @potus e i 2,8 milioni su Instagram, solo per citare i più noti (il sito WhiteHouse.gov, come già per Bill Clinton e George W. Bush, sarà azzerato e messo a disposizione del successore, con tutti i contenuti di Obama conservati su ObamaWhiteHouse.gov).

I dati dei social ci danno l’idea della prima vera eredità di Obama: la comunicazione 2.0. L’ex senatore dell’Illinois è stato il primo a vincere un’elezione politica grazie ai social network, chiamando i più grandi esperti del settore (tra i suoi collaboratori citiamo almeno Chris Hughes, cofondatore di Facebook) e dimostrando le enormi potenzialità del web.

Come altri prima di lui (John F. Kennedy su tutti), ha capito qual era il mezzo di comunicazione più efficace e l’ha usato nel migliore dei modi, veicolando un’immagine perfetta di sé.

L’altra pesante eredità che lascia è proprio il suo fascino comunicativo. Obama non è solo un ottimo comunicatore ma è perfettamente a suo agio davanti ai media e ha saputo mostrare un volto nuovo, quello del presidente amico. Nessuno prima di lui era stato in grado di interpretarlo così bene, nemmeno Bill Clinton con il suo sax.

Le foto con i bambini alla Casa Bianca, le smorfie e le pose a favore dei fotografi, l’ironia e l’autoironia negli interventi agli show: tutte immagini che sono entrate nel nostro immaginario collettivo e che hanno funzionato perché sincere. Obama non è come molti politici che usano i social e i media per “dovere” e il risultato naturale funziona meglio di qualsiasi tattica studiata a tavolino.

Il rovescio della medaglia è stata la vicenda degli scandali sollevati da inchieste giornalistiche, da Wikileaks a Edward Snowden, che Obama ha gestito con il pugno di ferro. Come ha dichiarato a Wired Joel Simon, Executive Director del Cpj (il Committee to Protect Journalist, organizzazione indipendente per la salvaguardia della libertà di stampa), “l’amministrazione Obama è stata la peggiore della storia degli Stati Uniti” e non perché ha limitato la libertà di stampa ma “perché la tecnologia ha concesso al governo di aggirare i media, e Obama ne ha approfittato“. In pratica, usando i social in prima persona, ha messo una barriera tra l’opinione pubblica e il controllo delle informazioni ufficiali fatto dai media, comunicando direttamente con gli americani.

Di fronte alle rivelazioni giornalistiche, il potere politico ha usato il potere del web e solo l’integrità dei giornalisti ha rotto il giochino. Non è un caso che Obama abbia usato lo Espionage Act (legge del 1917 creata per le spie della Prima Guerra Mondiale) per stanare le fonti giornalistiche degli articoli più scottanti, dalle rivelazione di Snowden a quelle di Wikileaks.

Chi verrà dopo di lui dovrà gestire tutto questo, scegliendo di inasprire la linea ufficiale (già durissima) o di inaugurare una nuova, delicatissima fase, di apertura.

Una eredità importante dell’amministrazione Obama è stata Michelle Obama, la First Lady. La moglie del primo presidente afroamericano non è stata solo la prima donna di colore a rivestire il ruolo ma è stata la prima a dare un senso politico a 360° al ruolo di “prima donna” del Paese. Non che prima di lei non ci fossero state donne di polso. Eleanor Roosvelt e Hillary Clinton hanno aperto la strada, entrambe da attiviste e femministe, ma Michelle Obama ha fatto di più. È stata lei a dare un ruolo politico alla First Lady nel senso più ampio possibile, usando la Casa Bianca come il luogo delle sue battaglie, dalla lotta all’obesità infantile (ha creato e coltivato di persona un orto biologico negli anni della presidenza) a quella per l’istruzione delle bambine.

Michelle Obama ha cancellato la figura della “moglie devota che vive all’ombra del marito”. Lei è stata a fianco del marito, è stata la sua ancora che l’ha risollevato nei momenti più delicati, ma ha camminato da sola, senza dover mai ritagliarsi il suo spazio e senza mai commettere un errore, usando se stessa come esempio della sua idea di politica e di donna forte, preparata, oltre che madre e moglie.

Per il movimento femminista, uscito con le ossa rotte dopo la sconfitta della Clinton, Michelle Obama ha rappresentato il volto del nuovo corso. Alcuni suoi discorsi sono diventati quasi più celebri di quelli del marito, tanto che Melania Trump ha pensato bene di “prenderne in prestito” uno per il suo discorso in campagna elettorale.

Il discorso alla convention democratica a sostegno della Clinton è stato forse il migliore della sua esperienza da First Lady e di certo uno di quelli che entrerà nella storia americana.

“Questa è la grande storia di questo paese, la storia che mi ha portato su questo palco oggi, la storia di generazioni di persone che hanno provato il peso e la vergogna della schiavitù, il dolore della segregazione ma che hanno continuato a sperare e fare quello che era giusto fare per permettere a me di svegliarmi ogni mattina in una casa costruita da schiavi. Oggi io posso guardare le mie figlie, due bellissime, intelligenti, ragazze nere, giocare con i cani sul prato della Casa Bianca”.

Michelle Obama ha gestito la comunicazione in maniera perfetta, usando i suoi account a sottolineare come il ruolo di First Lady può e deve essere altro e che non basta essere la moglie del presidente. “Ecco il mio messaggio finale da First Lady ai giovani. Voglio che sappiate che siete importanti. Dunque, non abbiate paura. Mi sentite, giovani? Siate concentrati, determinati, pieni di speranza. Rendetevi forti con una buona istruzione, esprimetela e usatela per costruire un Paese degno di promesse illimitate. Sappiate che sono con voi, faccio il tifo per voi”, è stato il suo saluto finale. Sarà molto difficile per chi verrà dopo di lei.

Comunque la si pensi, Obama lascia un paese più ricco di quello che aveva ereditato. Gli Stati Uniti sono usciti dalla recessione e sono cresciuti, con posti di lavoro in più e salari migliori per tutti. A lui va ascritto l’aumento del salario minimo, ottenuto con un decreto presidenziale per sorpassare il Congresso, portandolo da 7,5 a 10,10 dollari l’ora: poca cosa, si dirà, ma non per i lavoratori sottopagati dei fast food o del settore agricolo.

Il merito va alla sua politica economica e al supporto della Fed che ha mantenuto il costo del denaro a livelli bassissimi, un po’ come la Bce. Gli ultimi dati sono leggermente al di sotto delle attese ma confermano un buon stato di salute per l’economia americana a fronte di una crisi che ha messo in ginocchio molti paesi (USA compresi) e a un risanamento record del deficit, passato da 1.400 miliardi di dollari (il 47,4 per cento del bilancio totale) di Bush nel 2009, ai 438 miliardi di dollari (il 12,5 per cento del bilancio totale) del 2015, come ha ricordato Richard J. Carroll, economista di Bloomberg che ha redatto una speciale classifica sui migliori presidenti USA sui temi economici. Obama è all’ottavo posto su 12 ma con una media molto alta, vicina a quella di Ronald Reagan (il presidente del boom degli Anni Ottanta) e molto più alta del predecessore George W. Bush.

Con il suo predecessore George W. Bush all’inaugurazione del Museo di Storia e Cultura Afroamericana

Ci sono poi riforme importanti come l’Obamacare, che ha esteso l’assistenza sanitaria a 20 milioni di americani, e il sostegno ai matrimoni gay, poi sanciti dalla decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti: un segno che, piaccia o meno, è ben visibile.

Uno dei temi su cui in molti dibattono negli USA è l’eredità che Obama lascia alla comunità afroamericana. Dopo aver scritto la storia con la sua elezione alla Casa Bianca, attivisti e non si aspettavano una forte presa di posizione nei confronti del razzismo che ancora impregna la società americana (gruppi suprematisti bianchi come il KKK sono tutt’oggi attivi).

Invece, ha tenuto un profilo molto basso, toccando la questione razziale quando il limite era già stato valicato, come nel caso di Trayvon Martin, il 17enne ucciso da un poliziotto che si era insospettito perché indossava una felpa col cappuccio. “Avrei potuto essere io 35 anni fa”, disse. Il movimento Black Lives Matter è sceso per le strade del paese senza il suo supporto e quando sono stati presi di mira i poliziotti, Obama si è schierato con le forze dell’ordine. Pur avendo spianato la strada alle nuove generazioni e avendo superato ogni barriera razziale, non ha avuto la forza sufficiente per dare la svolta definitiva. A dirlo è stato lui stesso nel discorso d’addio. “Dopo la mia elezione qualcuno aveva parlato di una America post-razziale. Questo punto di vista, per quanto ben intenzionato, non è mai stato realistico”, ha dichiarato ricordando come la fine dello schiavismo e le lotte degli anni Sessanta hanno avuto effetti molto in là col tempo.

Il percorso è ancora lungo in questo senso, così come lo è per le armi.

Obama ha dovuto assistere inerme alle stragi delle armi in America negli otto anni di presidenza senza riuscire a cambiare nulla. Inutili gli appelli per regolarizzare le armi, con un Congresso saldamente in mano ai repubblicani: l’America post Obama è ancora il regno di pistole e fucili.

LEGGI PERCHÈ GLI USA NON RIESCONO A LIBERARSI DALLE ARMI

Infine, la questione ambientale. Obama si è fatto carico di una svolta epocale per il sistema energetico americano con il Clean Power Plan, il piano per l’energia pulita che punta al taglio delle immissioni di gas serra da parte degli USA e all’uso delle energie rinnovabili. In prima linea contro il cambiamento climatico, l’ex presidente ha dedicato molte energie soprattutto nel secondo mandato, arrivando a confermare il taglio del 32% delle emissioni di CO2 entro il 2030. Prima della Cop21 di Parigi si è incontrato al vertice Apec con il presidente cinese Xi Jinping, raggiungendo lo storico accordo con cui i due paesi ridurranno le proprie emissioni di gas serra di circa un terzo nei prossimi due decenni. Toccherà al suo successore garantire tutto questo o fermarlo, come sembra più probabile.

Se c’è un punto dolente che rischia di far dimenticare tutto questo è la politica estera di Obama. Pur avendo preso parte a processi storici come la ripresa dei rapporti con Cuba e la fine delle tensioni con l’Iran o aver pronunciato lo storico discorso al Cairo sul ruolo dell’Islam, l’ex inquilino della Casa Bianca ha cercato di mantenere un profilo anti militarista, come voleva certificare anche il premio Nobel per la Pace, senza riuscirci.

Impossibile rivoluzionare decenni di storia americana con l’interventismo al centro di ogni azione all’estero, specie se si è capo di uno dei più grandi e potenti eserciti al mondo. Il ritiro delle truppe in Iraq o l’uccisione di Osama Bin Laden, come aveva promesso, non bastano a coprire gli errori specie in Medio Oriente dove, tolte le truppe, sono rimasti i droni a uccidere.

Bombe in un asilo a Ghouta, Siria

La gestione del terrorismo è stata troppo insicura: la cattura e l’uccisione di Osama Bin Laden non hanno fermato Al Qaeda e simili e nulla hanno potuto le forze di intelligence contro lo sviluppo dell’Isis.

Su di lui pesa soprattutto il massacro della Siria ma anche quello dello Yemen: se non si è riusciti a fermare tutta questa violenza è anche perché gli USA si sono ritirati dalla scena diplomatica, in un caso lasciando la palla a Vladimir Putin, Recepp Tayyp Erdogan e Bashar al-Assad, nell’altro lavandosi le mani pur di mantenere i rapporti con l’Arabia e gli alleati nel Golfo. Troppo sangue per chiunque, specie per un Nobel per la Pace.

Lorena Cacace

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