C’era una volta, non troppo tempo fa, un’Italia che andava bombardata. La storia, insieme al destino, aveva prodotto un paese razzista, fascista e contro le regole dell’umanità. Nonostante gli esempi di eroismo nel Regio Esercito Italiano, come la carica del Savoia Cavalleria a Isbuscenskij e la resistenza della Folgore a El Alamein, noi eravamo i cattivi, o quantomeno quelli con le cattive idee. La storia ci insegna che, a rigore di logica, è un bene che gli italiani, insieme all’amico Hitler, non siano mai arrivati nel centro di Mosca o ad Alessandria d’Egitto. Siamo stati fermati, uccisi e battuti da un nemico che combatteva per una vittoria comune dell’umanità. La storia ci porta a ringraziare i soldati alleati che hanno messo la propria vita a repentaglio per liberarci da noi stessi.
Oggi possiamo osservare quei tragici eventi guardandoci alle spalle, lontano, verso l’orizzonte del tempo passato. I cimeli dormono nei musei e i campi di battaglia sono stati conquistati dall’agricoltura e dalla pace. I veterani di quella guerra si stanno estinguendo come i dinosauri, e spesso gli ultimi rimasti preferiscono fare altro che ricordare quei giorni.
Chi era il nemico? Chi ha frantumato il cuore di centinaia di madri italiane?
Frederic Arnold ha 93 anni e vive nel mezzo della pianura del Colorado insieme alla sua mente lucida e ai suoi incubi che richiamano la guerra. Quando i giapponesi bombardarono Pearl Harbor il 7 dicembre del 1941, Frederic aveva 19 anni e studiava a Chicago per diventare un artista. Mollò tutto, come molti suoi coetanei, per unirsi alle forze armate americane e combattere l’Asse e la sua insensata aggressione ai danni dell’Uomo.
Non c’era tempo per salamelecchi. In quattro e quattr’otto insegnarono al diciannovenne Frederic come pilotare un caccia bombardiere di nove tonnellate, lo misero su una nave insieme all’aeroplano e lo spedirono in Nord Africa. Era il 1943 quando Frederic, ragazzo semplice che non aveva mai lasciato gli Stati Uniti, si ritrovò a volare avanti e indietro sul Mediterraneo con una missione ben chiara: ammazzare italiani e tedeschi.
“Uccidere e fare l’artista non sono due cose che si sposano,” Frederic mi spiega nel suo salotto, davanti a diverse foto in bianco e nero che lo ritraggono giovanissimo insieme al suo aereo. “Sapevo che quello che stavo facendo era giusto, era chiaramente giusto, ma con ogni aereo abbattuto, con ogni bomba lanciata, morivo un po’ anche io.”
Il giovane Frederic dimostrò un’abilità innata a pilotare il P-38 “Lightning”. Volò più di 50 missioni di combattimento, abbattendo diversi aerei tedeschi e italiani e bombardando la Sicilia e il Sud Italia. Era così bravo a tirare giù apparecchi italiani che la fusoliera del suo aereo era coperta di fasci littori: uno per ogni velivolo abbattuto.
“Una volta stavamo volando sopra la Calabria,” ricorda Frederic, “quando incrociammo uno Sparviero (trimotore italiano da trasporto). Volava basso sotto di noi, e mi buttai in picchiata.” Una lacrima solitaria scorre sulle guance rugose del vecchio pilota. “Bastò una raffica per spezzare un’ala e precipitare il trasporto sulle montagne. Ci saranno state una dozzina di persone a bordo.” Una dozzina di italiani.
“Gli aerei italiani erano ottime macchine!” racconta Frederic, rianimandosi. “Però non ne giravano tanti… C’erano molti più Messerchmitt tedeschi.” Racconto a Frederic di quella volta che Mussolini, prima della guerra, tuonava di aver “otto milioni di baionette.” Frederic ride: “sì, non bastavano le baionette per vincere quella guerra…” Per fortuna.
“Tornato a casa, ho fatto molta fatica ad abituarmi alla vita normale. Non posso sapere quante persone ho ucciso in Italia e in Africa. Cento? Duecento? Quando bombardi una caserma all’alba, puoi sotterrare dozzine di persone con una sola bomba. L’arte mi ha aiutato a convivere con ciò che ho dovuto fare.” Frederic divenne, nel corso degli anni, un rinomato scultore. Tra le opere in mostra a casa sua ci sono dei bronzi a grandezza naturale dei ragazzi della sua squadriglia che non sono mai tornati a casa, morti nel combattere la nostra follia.
“Appena tornato da una missione, i meccanici mi davano carta e matita per schizzare ciò che avevamo fatto e visto durante la missione. Era la cosa più simile ad una fotografia che avevamo!” Frederic conserva ancora molti dei suoi disegni fatti nell’abitacolo del suo aereo. I suoi racconti parlano di una tecnologia che oggi appartiene solo ai musei di scienza della tecnica.
“Questo è Garcia.” Mi racconta indicando una statua. “Non ho mai parlato con Garcia. Il suo aereo si schiantò al decollo durante la mia prima missione. Il suo motore cedette immediatamente, l’aereo andò in stallo e cadde vicino alla pista. Io dovevo decollare subito dopo di lui e non ho mai avuto così tanta paura in vita mia. Il comandante alla radio mi disse: parti! Cosa aspetti? Ed io detti gas e decollai nel fumo dell’aereo di Garcia.”
L’arte ha aiutato Frederic a combattere il trauma della guerra, a sposarsi e a costruire una famiglia. “Non mi ha aiutato a scacciare gli incubi,” racconta Frederic, “quelli sono ancora gli stessi a 70 anni di distanza. Sogno un Messerchmitt che mi segue in coda, tra le nuvole. Non mi spara contro, non fa niente, ma è sempre dietro di me.” In un combattimento aereo, avere un velivolo nemico alle spalle spesso significava la morte.
Non credo che Frederic abbia discusso della guerra con molti italiani prima di me, e la nostra conversazione è stata interessante ma anche emozionante. Prima di andarmene, devo fare un’ultima domanda.
“Mister Arnold, non importa quanti italiani lei abbia dovuto uccidere, non importa quanti aerei lei abbia dovuto abbattere, io non posso fare altro che ringraziarla per quello che ha fatto. Sono certo che, insieme al mio ringraziamento, si unisce quello della mia famiglia e dell’Italia intera.” Frederic si abbandona finalmente ad un silenzioso pianto. “Allo stesso modo, sono certo che se andassimo a cercare in Vietnam, in Afghanistan o in Iraq, faremmo molta fatica a trovare qualcuno disposto a ringraziare i soldati americani. Come mai?”
“Abbiamo perso la via.” Risponde l’asso dei cieli, serio, asciugandosi le lacrime. “Una volta uccidevamo con la coscienza di uccidere, come se sapessimo cosa sarebbe venuto dopo aver premuto il grilletto. Ciò che viene richiesto ai nostri soldati oggi non ha nessuna morale.”
Parola di chi di uccidere se ne intende.