Su e giù, su e giù. Come da bambini saltando e ribassandosi sul sellino dell’altalena, Inter e Milan non sanno bene cosa sia la continuità in questa stagione. Sanno stupire, esaltare i tifosi, ma anche cadere in rovinose sconfitte che alla lunga hanno dato un senso diverso a questa strana e già di per sé particolare annata. Ieri è successo ancora, visto che i nerazzurri, proprio dopo la vittoria fondamentale contro il Porto, hanno perso contro il Bologna e soprattutto per loro demerito. I rossoneri, invece, sono definitivamente sbocciati dopo la lunga crisi di gennaio e l’hanno fatto in uno scontro diretto che vale tanto per le ambizioni di Stefano Pioli e dei suoi ragazzi.
Inter, ma sei tu? Sì, sei proprio tu. L’Inter di Simone Inzaghi: una squadra a tratti spettacolare, bellissima nella proposta di gioco, nelle azioni, nell’impostazione da dietro e nelle combinazioni tra centrocampisti e attaccanti. La stessa squadra che, però, sul più bello si trasforma e non regala più solo emozioni positive, ma anche tante incertezze, errori e sconfitte. Proprio quando nessuno se l’aspetta. Contro il Bologna è successo ancora una volta questo, è successo che i nerazzurri di Milano hanno perso per 0-1 una partita che potevano vincere con risultato opposto o anche solo pareggiare, che sarebbe stato comunque meglio. Poche ore dopo, gli storici rivali della Beneamata hanno portato a casa tre punti fondamentali per l’ingresso in Champions League contro l’Atalanta, uscendo definitivamente dalla crisi di gioco e prestazioni che ha afflitto i ragazzi di Stefano Pioli nel mese di gennaio, il più cupo degli ultimi anni. Si può tranquillamente dire che a Milano non domini solo la nebbia, il freddo e la Madonnina, ma un’incostanza che regna nelle squadre grandi, ma non grandissime e che sembra ormai endemica nei dati di fatto delle due società.
Pioveva a Bologna, neanche poco. Il campo era pesante e gli avversari agguerriti. Non era il regno della qualità, neanche quello della tranquillità. Un campo angusto nel luogo dei cantautori, del buon cibo, dell’arte e della sinistra, quella nucleare da cui partono i raggi della politica progressista e gli arcobaleni delle cose nuove. Nelle ore che precedevano l’affermazione identitaria, pesante e per molti sorprendente di Elly Schlein, però, si giocava anche una partita di calcio, una di quelle che in città sentono, che arrivano da fuori, che c’è una di quelle tre lì, che bisogna comprare il biglietto un po’ prima e spenderci pure qualcosa in più. Arrivava l’Inter a Bologna, la prima tra le umane dietro un Napoli talmente bello che o sole e o mar a confronto distraggono, ma non fanno impallidire.
La sensazione, e poi anche il dato di fatto, è che i nerazzurri abbiano poco da chiedere a questo campionato. Una posizione scomoda per continuare a fare bene sempre e comunque, e scomodo è soprattutto non pensarci e dare il meglio con le rotazioni necessarie e quelle corrette, ma che lasciano gli uomini importanti in panchina. È così che con Milan Skriniar e Federico Dimarco ai box, Inzaghi rispolvera un Denzel Dumfries deludente e un Robin Gosens da rigenerare. Soprattutto resta out Nicolò Barella, che in riposo è fondamentale, ma anche Edin Dzeko, perché Romelu Lukaku deve giocare per tornare quello vero.
Insomma, la formazione dell’Inter è una partita a scacchi tra chi ci tiene, ma vuole vincere senza strafare. Che lì in quell’area recondita, passionale e istintiva del cervello c’è comunque la parola Porto che anima i pensieri e le ambizioni. La Champions League in misura più ampia, quella competizione che stuzzica e quest’anno può regalare qualche gioia in più del solito dopo aver superato il girone infernale che ha tenuto fuori il Barcellona dal novero delle migliori sedici.
Testa al Po… Ops, al Bologna. E si è visto. L’Inter iniziava la partita da seconda in classifica e con un posto tra le prime quattro ben sigillato in prospettiva futura. La Juventus s’è fatta fuori da sola insieme alle aule di tribunale, almeno per questo momento. Le altre claudicano in un limbo che non è stellare e neppure sottoterra, è semplicemente una dimensione che poco ha a che fare con la vittoria e molto con obiettivi concreti che per alcuni valgono quanto quelli massimi.
Nonostante questi significanti, la partita dei nerazzurri è stata troppo brutta per non scatenare un polverone. Lo è stata come singoli e come squadra. Non è un caso se Stefan de Vrij, rilanciato nel cuore della difesa, è stato sostituito già alla fine del primo tempo per un Francesco Acerbi più sicuro e meno svogliato. Non è un caso anche che Lukaku non abbia finito neppure questa partita, rilevato da un Dzeko che comunque non ha fatto tanto meglio. Insomma, il cocktail emiliano servito all’ora dell’aperitivo è andato di traverso a Inzaghi e alla sua squadra. Ma non è solo colpa dell’Inter. Questo Thiago Motta non è cosa nuova per noi italiani, sappiamo bene come si comportava in campo, da piccolo allenatore, quando già si diceva che sarebbe diventato qualcuno anche senza gli scarpini e nei confini dell’area tecnica. Ora, però, i suoi ragazzi stanno definitivamente sbocciando e con un Riccardo Orsolini così l’Europa non è neppure un miraggio.
I dati di fatto, per riassumervela come l’abbiamo vista, sono pochi ma certi: il Bologna è partito meglio e ha dominato soprattutto lì dove l’Inter solitamente eccelle, nel cuore del campo. L’attacco nerazzurro non ha girato e la difesa ha iniziato a scricchiolare sotto i colpi ben sferrati dai rossoblù: quante occasioni fallite… Tante che se il primo tempo fosse finito 3-0 nessuno avrebbe potuto gridare allo scandalo. E meno male che André Onana era in giornata sì, altrimenti la giornata no dell’Inter si sarebbe trasformata in un disastro da cui rialzare la testa sarebbe stato ancora più complicato.
Nel secondo tempo la squadra di Inzaghi si è mostrata un po’ di più e soprattutto ha mostrato i pezzi forti del repertorio: la manovra è salita di livello, la difesa pure ed è arrivata pure qualche occasioncina non sfruttata. Poi, però, ci si è messo di mezzo proprio il tecnico ex Lazio: sì, perché la scelta di inserire Danilo D’Ambrosio anziché puntare alla vittoria non ha portato i frutti sperati e un grave errore del terzino in impostazione ha aperto la strada a Orsolini per il gol da tre punti che ha fatto esplodere di gioia una città intera. Uno a zero, quindi, e il treno per Milano pieno di dissennatori, quelli da tenere in soffitta per non farsi succhiare l’anima. E l’Inter non può proprio permetterselo proprio quando la stagione si fa più calda per gli obiettivi che contano.
Prima ancora che la tattica e gli uomini scelti, comunque, se si parla dei nerazzurri da quando Inzaghi siede su quella panchina, la prima parola che scatta in testa è discontinuità. Stiamo parlando della squadra che ha distrutto il Milan in Supercoppa italiana, la stessa che ha battuto il Napoli meritatamente, l’unica a farcela in questa Serie A, e quella che ha eliminato il Barcellona a suon di contropiede, qualità e gol. Senza più chiudersi necessariamente per 180 minuti nella propria area di rigore.
Quella stessa squadra, però, dopo le fatiche di Champions League, fa maledettamente fatica a ripartire con la stessa voglia e lo stesso senso. Non che di stanchezza non ce ne sia dopo certe partite, ma pare quasi di vedere in campo dei calciatori diversi. Come se avessero la pancia piena, come se le motivazioni venissero meno e di conseguenza anche le gambe. A questi livelli è inaccettabile ed è inaccettabile per i tifosi che Inzaghi non abbia ancora trovato le parole e i toni adatti per far sì che questo non ricapiti.
Ormai le parole del popolo sono chiare per quanto riguarda l’ex Lazio: bravo, bravissimo nelle coppe, ma non in campionato, lì dove devi vincere anche sporco, avere un rendimento costante e non cadere quando proprio non puoi cadere. L’Inter l’ha fatto. Nella prima parte di stagione sembrava impossibile battere una diretta rivale o non farsi rimontare, entrambe le situazioni sono capitate in diverse occasioni. Nel girone di ritorno, invece, la squadra pare essersi abituata a perdere contro le piccole, visto che già Bologna ed Empoli ce l’hanno fatta a sconfiggere la parte blu di Milano, e senza troppa fortuna.
Inzaghi, intanto, è finito di nuovo nella morsa degli scettici e con degli attacchi ben precisi e lì dove fa più male. Nelle ultime ore, in molti l’hanno accusato di non saper motivare la squadra, molti altri di non saper operare le sostituzioni corrette.
Quello che ci sentiamo di dire, prima di ogni altra cosa, è che nel calcio (come nella vita) esiste il nero, esiste il bianco, ma esiste anche il grigio. Inzaghi non è il miglior allenatore del mondo e non pretende neanche di esserlo, ma non ha neanche a disposizione la miglior rosa che l’Inter abbia mai declinato. E neanche i fondi necessari per allestirla. È vero, diverse scelte da quando siede su quella panchina non sono state corrette, anche sul calciomercato, ma un’identità la sua squadra ce l’ha e non è così facile da costruire. Magari dovrebbe rischiare di più, anziché sostituire sempre ruolo per ruolo e quelle tre punte, se le cose si mettono male, può anche rischiarle tutte insieme per qualche minuto. Ciononostante, parliamo di un allenatore che porta trofei, qualificazione, soldi in cassa e punti nel progetto: in questo momento storico, chi vorrebbe l’esonero dovrebbe anche razionalizzare e capire che le alternative non sarebbero affatto migliori. Stravolgerebbero verso il peggio e non è affatto quello che serve all’Inter.
Comunque la sconfitta di Bologna non sta passando inosservata, anche agli occhi della dirigenza, i cui massimi esponenti erano incappucciati al freddo sugli spalti con gli occhi stralunati per il brutto spettacolo a cui stavano assistendo. Già i toni usati ieri da Lautaro Martinez, il nuovo capitano, e le scuse ai tifosi suonavano come un grido a starci con la testa, almeno da quel momento in poi. Oggi, in un’intervista ai microfoni di Sky Sport, anche Giuseppe Marotta ha detto la sua senza troppi peli sulla lingua: “Abbiamo fatto bene nelle coppe, ma l’obiettivo più ambito è lo scudetto. Dopo la sconfitta di ieri con il Bologna siamo qua a chiedere alla squadra e all’allenatore ancora più motivazione e concentrazione perché si possa non perdere di vista l’obiettivo di questa stagione, che è la qualificazione in Champions. Il nostro obbligo è dare soddisfazione ai tifosi. Inzaghi è un allenatore bravo, giovane e preparato. La fiducia in lui non è mai mancata“.
Insomma, se il futuro della guida tecnica non è in discussione, lo è l’impianto emotivo con cui i calciatori entrano in campo e gli input che gli vengono iniettati. Non abbastanza. I dati vanno a supporto di quanto detto da Marotta e, in questo caso, anche nel pensiero che circola tra i tifosi. Quest’anno dopo ogni grande vittoria, l’Inter ha portato a casa una sconfitta. In più in 24 partite la squadra di Inzaghi ha totalizzato lo stesso numero di ko che Antonio Conte aveva incassato in due anni (sono sette). Numeri allarmanti, ma da cui ancora c’è tempo e modo per rialzarsi: perché il calcio è così per le squadre grandi, ma non grandissime, ma anche per chi si progetta grande nel giro di qualche anno. Ed è il percorso che l’Inter, tra mille problemi, ha tutta l’intenzione di portare a termine.
Passando, invece, all’altra sponda di Milano, troviamo la stessa classifica e il secondo posto, ma con sensazioni decisamente diverse. Sì, perché se i nerazzurri hanno avuto il loro periodo più buio a inizio anno e poi hanno sparso qua e là delle sconfitte pesanti che hanno ampiamente ridimensionato le ambizioni scudetto, i rossoneri hanno vissuto un gennaio tremendo da cui sembrava impossibile rialzarsi. La prospettiva di portare a casa un trofeo è svanita con gli addii alla Coppa Italia e alla Supercoppa italiana, mentre in campionato la squadra di Pioli si è trovata addirittura fuori dal novero delle prime quattro.
Assolutamente deludente e irriconoscibile rispetto alla squadra che saliva sul tetto della Serie A pochi mesi prima e proprio a spese dei cugini, per cui Bologna era risultata ancor più fatale rispetto a ieri. Da febbraio, però, le cose sono cambiate, perché questo Milan sa restare umile, incassare, rialzarsi e poi risorgere dalle sue stesse crisi. Ed è andata così anche in questo caso, con il massimo sostegno a chi sta in panchina e non è stato mai messo in discussione, neanche dopo due derby persi male e le pesanti sconfitte contro Sassuolo e Lazio, incassando nove gol in sole due uscite.
Male, male ma anche lo spunto per fare qualcosa di più e di meglio. Pioli ha deciso innanzitutto e da buon italiano di blindare la difesa e non permetterle di incassare più quanto stava incassando. Ha optato, quindi, per un sistema di gioco a tre, tentando di liberare il suo arsenale offensivo e la sua fantasia alle spalle di Olivier Giroud, in un assetto più bilanciato e meno spregiudicato.
Se nella prima uscita contro l’Inter i risultati sono stati nefasti, le volte dopo la porta è rimasta imbattuta e con un Ciprian Tatarusanu che finalmente ha trovato nuove certezze dopo le sofferenze e le critiche delle settimane prima. Contro l’Atalanta si è visto finalmente il culmine di questo percorso di crescita che è sfociato in un 2-0 meritato e senza polemiche, di quelli che non hanno bisogno di tanti altri significanti rispetto alle parole del campo.
È stata una serata bella quella di ieri per il Diavolo e che ha permesso di riscoprire i pezzi forti del repertorio delle ultime due stagioni, proprio quei tasselli che si erano nascosti sotto il tavolo da gioco e sembravano irrecuperabili. L’aggressività per prima cosa, la capacità di vincere i duelli individuali, poi anche la cattiveria nella palla verticale e la finalizzazione. Non sappiamo quale sia più importante, ma sicuramente giocare il pallone dritto verso un Giroud così è un’ottima soluzione. Il francese, infatti, è tornato quello dei tempi migliori dopo le prove sfocate post Mondiale ed è stato anche tra i migliori in campo ieri sera.
Ha tenuto in gioco molti palloni, li ha ripuliti e resi utili per i compagni, poi ha attaccato con cattiveria la porta, ma quello è passato anche in secondo piano. L’ex Chelsea è quello che in altri tempi e modi si sarebbe definito l’attaccante di manovra perfetto per una squadra come il Milan e, quando è mancato, tutti hanno capito cosa voglia dire.
Poi c’è anche qualche sorpresa. Malick Thiaw è esattamente l’elemento che mancava nella difesa del Milan per smettere di subire. Il centrale è giovane, ha una fisicità fuori dal comune, ma anche l’umiltà e l’intelligenza tattica per blindare la retroguardia e impedire agli avversari di andare in porta. È vero, anche Pierre Kalulu e Fikayo Tomori sono tornati in forma splendente, ma comunque ieri Ademola Lookman e Rasmus Hojlund hanno toccato pochi palloni e non sono mai riusciti a superare gli avversari nell’uno contro uno. Il loro talento è evidente dai dati e dalle giocate di questa stagione, ma è stato letteralmente annullato da una delle retroguardie più criticate delle ultime settimane.
Una difesa che ieri ha recuperato un elemento essenziale come Mike Maignan. Non ce ne voglia Tatarusanu e sicuramente non era solo colpa sua, ma l’assenza del francese per l’infortunio e la ricaduta al polpaccio si è sentita veramente tanto. L’ex Lille è stato definito da Pioli come un “leone in gabbia” negli ultimi mesi, ma probabilmente lo erano di più i tifosi che aspettavano il suo ritorno tra i pali. Anche ieri, pur non dovendo spendere le parate migliori del suo repertorio, ha fornito una prova di grande solidità e che ha dato sicurezza a tutto il reparto.
Non è per forza demerito degli altri e bisognerebbe iniziare a pensarla così. Maignan è semplicemente un elemento unico e come lui ce ne sono pochi altri nel suo ruolo. L’estremo difensore ha un lancio talmente profondo e preciso che si trasforma facilmente in assist per un velocista come Rafael Leao, quello che probabilmente beneficerà di più del ritorno del portiere. Poi è agile tra i pali, ma anche coraggioso nelle uscite, coprendo senza traballare tutta quell’area di porta che spesso è dominata solo dai calciatori più fisici dell’una o dell’altra squadra. Non è un caso se anche nelle ultime ore i tifosi hanno speso parole importanti per lui e, soprattutto al Milan, non si fa per tutti.
La sensazione, che poi è praticamente una certezza, è che sarà lui uno dei perni del presente e del futuro per Pioli. Sarà da lui che ripartirà anche il Diavolo dei prossimi anni, molto più di quanto non sia accaduto con Gianluigi Donnarumma. Non può essere merito del fato neppure il fatto che sia stato tra i grandi protagonisti dello scudetto e a Milano nessuno l’ha dimenticato, su entrambe le sponde dei Navigli.
E se si parla di grandi ritorni, un capitolo a parte lo merita sicuramente Zlatan Ibrahimovic. Lo svedese era in panchina già contro il Torino, ma forse più per dare una scossa emotiva alla squadra, ancor più del contributo letale che è sempre riuscito a imprimere sul campo. L’attaccante centrale ora non è più un giovincello e non può neppure essere al massimo della sua condizione fisica, ma si sa è più di tutti un protagonista del gruppo, un leader eccelso.
Ibra è il mago che rende più difficili gli allenamenti, alza il livello di attenzione, fa crescere i giovani e motiva il gruppo. Gli infortuni, il lungo ko che l’ha tenuto ai box praticamente un anno sono solo degli incidenti di percorso che non possono comunque nascondere l’enorme valore che questo calciatore ha per la sua squadra, dove è praticamente venerato.
Lo sa anche San Siro che ieri al momento del suo ingresso in campo gli ha dedicato una straordinaria standing ovation, di quelle che ricevono solo i migliori di tutti, gli unici per eccellenza. Ibra non ha battuto ciglio, è entrato in campo e ha cominciato a fare quello che gli riesce meglio: far sentire il suo peso offensivo. All’età di 41 anni, con la presenza di ieri sera, ha staccato il pass come più vecchio calciatore di movimento nella storia della Serie A a scendere in campo, eppure non sembrava così a conti fatti.
Certamente, non è più il calciatore devastante di qualche anno fa, ha dovuto cambiare il suo gioco e il suo modo di stare in campo. Ora è un pivot vecchio stile che ama giocare spalle alla porta e sfruttare la sua fisicità per dare avvio all’azione dei suoi. Un riferimento assoluto, come se fosse la metafora di ciò che succede nello spogliatoio, ma che comunque non ha perso neanche un pallone e che ne ha reso molti altri giocabili. La sua prestazione è stata giudicata dai più come sufficiente e per i dati della partita è la valutazione corretta, ma non si può comunque ignorare la bellezza della sua storia. Una storia meravigliosamente calcistica, ma che dà tanto anche a quei talenti che hanno la fortuna di poter crescere sotto la sua ala protettiva.
Non è un caso che il Milan abbia portato a casa il bottino pieno proprio nella serata dei ritorni eccellenti in campo e che nella stessa giornata sia arrivato anche il secondo posto a pari punti con l’Inter. Il destino ci ha messo dentro le sue corde, i suoi progetti e una buona parola, ma è comunque così. E chissà che Pioli non possa presto tornare all’antico e a rispolverare la difesa a quattro che l’ha portato sul tetto d’Italia con Rafael Leao liberato sull’esterno nei suoi uno contro uno travolgenti.
Anche il portoghese è salito di condizione nelle ultime giornate, ma mai come colui che la fascia sinistra continua ad ararla, anche se in posizione un po’ più avanzata. Ci stiamo riferendo ovviamente a Theo Hernandez. Beh, se di protagonisti si vuole parlare nel successo contro l’Atalanta, non si può che citare anche lui. D’altronde il gol che ha aperto i giochi e sbloccato la partita, arriva proprio da lui e dal suo piede caldo. Da quel tiro al volo che implica una coordinazione eccezionale e un istinto per il magnifico non indifferenti. Il resto ce l’ha messa la schiena di uno sfortunato Juan Musso e forse anche un po’ la giustizia degli audaci.
La sua partita, però, non si è affatto limitata solo a quello. Il francese apatico e fuori forma che è tornato dalla finale del Mondiale persa contro l’Argentina ha mostrato tutti i suo pro, lasciando in cantina i contro. Scatta, dribbla, difende con grande sicurezza e ha recuperato una condizione fisica ben più che sufficiente e che gli permette di essere decisivo nei momenti cruciali della partita. Anche il suo si può considerare a tutti gli effetti un ritorno, uno di quelli che considerare solo gradito sarebbe quasi riduttivo. Essenziale è il termine giusto e Pioli lo sa bene.
Bravo il Milan, quindi, perché è vero che l’Atalanta non è stata sicuramente quella della serata migliori, che i suoi talenti non hanno brillato e che anche le alternative hanno fatto il solletico alla difesa rossonera, ma certe partite si vincono in quei duelli. Duelli che, minuto dopo minuto, sono sempre più andati nella direzione di Milanello e non verso i bergamaschi.
Quindi, cosa ci si può aspettare da questo Milan nel prossimo futuro? Certamente che questa condizione continui e, anzi, per alcuni possa addirittura migliorare. Presto Ismael Bennacer tornerà in condizione e, quindi, questa squadra, con delle certezze del tutto rinnovate, può sicuramente ambire a comandare il gioco con più continuità e meno incertezza proprio a partire dai piedi dell’algerino. Poi anche Ibrahimovic e lo stesso Maignan potrebbero metterci del loro e per far sì che questo Milan esca finalmente dall’altalena di gioco e prestazioni. Quale notizia migliore potrebbe esserci alle porte del ritorno contro il Tottenham di Conte? Nessuna. Ma guai a dare quel risultato per scontato, perché è vero che il tecnico leccese non ha nella Champions League il suo habitat migliore, ma non è affatto avversario da sottovalutare, soprattutto quando gioca in casa.
Se poi, a conti fatti, dovesse arrivare un’altra vittoria pesante, è proprio a quel punto che si potrà parlare del Milan come quella squadra che non conosce limiti, anzi che ama superarli, come un eroe omerico che supera le barriere del possibile e dopo mille peripezie blinda la sua vita e lo fa nel cuore e nei valori comunemente accettati e riconosciuti come indispensabili. Soprattutto darebbe dei connotati diversi a una stagione che non porterà in bacheca un altro scudetto, quello della seconda stella, ma che comunque potrebbe regolare delle grandi soddisfazioni a un gruppo nato per sognare. E che di ostacoli ancora può superarne tanti, senza più altalene strane e arrugginite.
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