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Cultura

La cancel culture spiegata (un po’) bene

Cancel culture, un pot-pourri di cose che ne include altre e che in sostanza altro non è che l’inizio di una ribellione a cui di solito non segue nessuna cancellazione, ma comunque un po’ di danni li fa. 

Indro Montanelli, la statua a Milano – Nanopress.it

Che cos’è la cancel culture, questa sorta di revisionismo delle parole, della storia, dei fatti e della reputazione di registi, attori e professori, oppure giornalisti, insomma persone note che hanno fatto cose che non dovevano fare o che ai tempi si potevano fare e adesso non si possono più fare.

Cancel culture gli esempi che si prestano a spiegarla

Guarda Cristoforo Colombo che si è fatto invischiare nella cancel culture, perché a ragione considerato dagli uni schiavista e colonizzatore e dagli altri padre della patria che ha permesso l’esistenza degli americani. Da questo esempio si capisce bene, come il fenomeno della cancel culture sia in fondo divisivo e fortemente amplificato dalle suggestioni di cui la massa si nutre sui social, nutrendoli a sua volta.

D’altronde la cultura non può essere cancellata. O almeno il buon padre dell’antropologia Claude Levi Strauss, non lo avrebbe mai permesso e addio Tristi Tropici. Semmai, il fenomeno è orwelliano e quindi andremmo a modificare titoli e vecchie storie di giornali perché non esistano più.

Ma restiamo sul pezzo. Ecco un altro esempio di cancel culture: la statua di Indro Montanelli tre anni fa viene imbrattata pesantemente di vernice rosa a Milano da un gruppo di attiviste femministe. Le ragioni avanzate per il gesto di vilipendio a uno dei più grandi giornalisti della storia italiana vanno viste in una giovanissima etiope adolescente con cui Montanelli ebbe rapporti ai tempi della campagna in Etiopia. Parole sue: “Non mi prendere per un Girolimoni perché a 12 anni quelle lì erano già donne. Avevo bisogno di una donna, a quell’età si capisce. La comprai assieme a un cavallo e a un fucile, il tutto per 500 lire. Lei era un animalino docile. Quando me ne andai la cedetti al generale Pirzio Biroli, un vecchio coloniale che era abituato ad avere il suo piccolo harem, a differenza di me che ero monogamo perché non potevo consentirmi grandi lussi”.

È evidente che circa 90 anni più tardi considerando che i fatti di Indro Montanelli risalgono al 1935 circa, queste affermazioni scatenano l’ira se non soltanto lo sdegno di chi nel progresso della cultura ci sguazza traendone un’infinità di possibilità anche quelle di cancellarla. Chi sono gli attori principali: gli attivisti, le associazioni, gli influencer con i loro post e i politici. E chiunque ne tragga vantaggio. Insomma tutta carne al fuoco.

Progressimo o revisionismo?

La cancel culture, poi, forse si nutre del fatto che ai tempi consolidati del web dove vi è traccia di tutto, si aggiungono nuove funzioni come quella di cancellare per te e per il mittente un messaggio di una chat, oppure annullare l’invio di una mail già partita. Insomma, nulla è per sempre, ma la storia quella sì.

L’ondata di protesta al grido di “Black lives matter“, continuando, si inserisce bene nel fenomeno della cancel culture, le statue di tanti schiavisti così a prendere il sole da tempo immoto in numerose città americane, vengono prese di mira dagli attivisti. L’indignazione si alimenta e parte la protesta.

Black Lives matter, manifestante – Nanopress.it

Ecco, il bello della cancel culture è che rappresenta un motivo di associazionismo volto alla protesta, è in sostanza la miccia che fa scattare la ribellione riempiendo le piazze oppure dando luogo a fenomeni più circoscritti e utili comunque a rappresentare le cause più disparate.

Altrimenti va citato lo sdegno con cui, per esempio, si è diffuso il movimento #Metoo che ha messo sotto accusa, fra gli altri, Woody Allen reo di un rapporto clandestino con la figlia della ex moglie Mia Farrow, rapporto mai provato ma che è costato al regista una collaborazione con Amazon e sicuramente un crollo della sua reputazione oltre che degli affari per i libri che lo riguardano.

Ma riferendo ancora ai risvolti di questa “cultura” della non cultura, commentano gli analisti, la cancel culture, lo ripetiamo, fomenta l’odio e aumenta le divisioni senza poi cambiare un granché, se non alimentare il dibattito.

Come nel caso di Cristoforo Colombo, negli States la cancel culture viene utilizzata a scopi politici, aumentando le tensioni fra nazionalisti della Far right e minoranze e Antifa. E non fa altro che aggiungere confusione accostandosi facilmente ad altri concetti parenti. In primis quello del politicamente corretto, per cui ogni affermazione o gesto sono, di certo, politici. A riguardo, poi, si aggiungono gli appropriamenti culturali, ovvero l’abitudine di indossare abiti tradizionali di una cultura non propria, una pratica che adesso non è altrettanto ben vista. Quindi scordatevi i dreadlock ai capelli.

Se no? Se no c’è Ignazio La Russa, che scomoda il termine cancel culture per una foto di Mussolini esposta al Mise, che andrà rimossa anche se Mussolini oltre che duce è stato ministro al suddetto ministero. Come dargli torto, con una parte del Paese che si sente in balia del neofascismo che bussa, anzi sembrerebbe proprio aver aperto le porte.

Andrea G. Cammarata

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