È giunta difatti in queste ore per bocca del giornale di regime in lingua inglese South China Morning Post, la proposta della Cina di intavolare un incontro tra Xi Jinping e quattro tra i più importanti leader UE per questo novembre.
La Repubblica Popolare si trova in questo periodo in una posizione non invidiabile: ha stretti rapporti (per lo meno di facciata in ottica anti-occidentale) con la Russia di Vladimir Putin, eppure resta defilata nell’attuale contesto ucraino e sanzionatorio in quanto fortemente dipendente dalle esportazioni con cui inonda i ricchi mercati occidentali; un tenere i piedi in due staffe che richiederà a Pechino un equilibrismo da vero saltimbanco.
La notizia trapelata dalle colonne del quotidiano del Dragone mette in subbuglio le cancellerie europee: Xi Jinping, nella figura del suo ministro degli Esteri Wang Yi, avrebbe proposto ai leader di Germania (Olaf Scholz), Francia (Emmanuel Macron), Italia (Mario Draghi) e Spagna (Pedro Sanchez) un incontro a Pechino da tenersi in novembre, dopo l’atteso ventesimo congresso nazionale del Partito Comunista cinese.
Infatti quest’ultimo appuntamento dovrebbe riconfermare la leadership dell’attuale segretario generale del partito e presidente della nazione, donando a questi nuova forza di azione sullo scacchiere internazionale.
I paesi UE destinatari dell’offerta della Cina tentennano nell’usuale indecisione europea tra economia e strategia: la Repubblica Popolare è un partner commerciale attualmente irrinunciabile, eppure la sua gestione interna del potere e gli attriti con Washington per il predominio globale, lo rendono un Paese inaffidabile e potenzialmente pericoloso per i già precari equilibri globali.
È infatti la contrapposizione U.S.A. – Cina la vera ombra che incupisce gli animi dei decisori europei: da tempo, ed in particolar modo dalla presidenza Biden, gli Stati Uniti stanno predisponendo un cordone di alleanze politico-militari volte a frenare la crescita della potenza asiatica.
Ciò si sostanzia tanto nel blocco navale creato attraverso gli stati limitrofi alle coste dell’ex Impero di Mezzo, il cui focale compito è inibire la volontà cinese di recuperare con la forza l’isola ribelle di Taiwan, quanto attraverso il coinvolgimento delle nazioni europee sul lato diplomatico-commerciale, ossia osteggiando qualsiasi approfondimento nei rapporti di interscambio tra Pechino e capitali UE.
La strategia, molto complessa per il numero di attori coinvolti con relative renitenze ed interessi divergenti, genera indecisione in Europa: la Cina per distanza geografica e centralità economica è un partner a cui è difficile rinunciare, specie per governi che fanno dell’economia e della crescita del PIL il fine ultimo del proprio operare.
Se quindi gli esecutivi di Germania e Francia lasciano trapelare il formarsi di un acceso dibattito interno sul da farsi, l’unica entità che sembra possa fedelmente mantenere le posizioni a stelle e strisce appare il premier italiano Draghi.
Il governo di quest’ultimo ha difatti ampiamente utilizzato il Golden Power, la norma attraverso cui le istituzioni statali bloccano investimenti esteri in aziende ed asset nazionali di particolare rilievo per l’indipendenza e sovranità stessa dello stato, ai danni dei lauti finanziamenti comunisti.
Tuttavia in questo caso non è la linea di fermezza a traballare, quanto il suo rappresentante: Mario Draghi, il quale è ufficialmente premier dimissionario dopo la crisi di governo causata dalle renitenze M5S sulla politica dell’esecutivo.
Le potenze mondiali si studiano e muovono i loro pezzi sulla scacchiera mondiale: l’Europa, stretta al solito nell’indecisione tra economia e politica strategica, rischia di divenire la pedina di questo infausto gioco.
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