L’ONU considera la sentenza della Corte Suprema degli USA “una battuta d’arresto nella lotta” contro il riscaldamento globale e i giudici progressisti la considerano “terrificante”.
Nel 2019, quando Donald Trump era ancora alla Casa Bianca, la capitale spagnola ospitò il vertice delle Nazioni Unite sul clima. E i Democratici si sforzarono di spiegare che, nonostante Trump – venuto per portare il suo Paese fuori dagli accordi di Parigi – all’interno degli Stati Uniti c’erano governi locali e statali impegnati nella lotta ai cambiamenti climatici.
“Siamo tornati”, ripetevano i Democratici dal 2021 dopo essere riusciti a sfrattare Trump dal potere e a reintegrare gli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi e nel negoziato globale sul clima. Ma la sentenza della Corte Suprema che ora limita il margine d’azione del governo federale e dell’Agenzia per la protezione ambientale (EPA) per limitare le emissioni di gas serra è un nuovo colpo alla credibilità degli Stati Uniti nella lotta internazionale contro il riscaldamento.
Come “una battuta d’arresto” nella “lotta al cambiamento climatico”, così un portavoce dell’Onu ha definito la sentenza, che “rende difficile il raggiungimento degli obiettivi dell’accordo di Parigi”. L’amministrazione Joe Biden è tornata alla lotta contro la crisi climatica con aspirazioni dichiarate a guidare questa battaglia internazionale, e nell’aprile 2021 ha organizzato un vertice.
Biden da subito si è collegato virtualmente con 40 leader mondiali – tra cui il russo Vladimir Putin e il cinese Xi Jinping – ed ha annunciato un obiettivo ambizioso: gli Stati Uniti avrebbero ridotto le proprie emissioni di gas serra dal 50% al 52% nel 2030, rispetto ai livelli del 2005. Il progetto di Biden è stato così inserito nel gruppo delle potenze più ambiziose, quasi alla pari con l’Unione Europea.
Tuttavia, la macchia sull’affidabilità degli Stati Uniti – il principale responsabile storico del riscaldamento, anche se al momento il principale emettitore mondiale è la Cina – è proseguita a causa del suo passato, e dei problemi che Biden potrebbe avere nell’applicare le politiche necessarie per adempiere ai suoi promesse all’Onu, come avviene ora con la sentenza della Corte Suprema, controllata dalla maggioranza conservatrice.
Questo impegno a ridurre le emissioni fino al 52% nel 2030 è stato presentato da Biden alle Nazioni Unite nel quadro dell’Accordo di Parigi, firmato nel 2015. Quel patto è andato avanti in gran parte grazie al coinvolgimento dell’ex presidente Barack Obama, ma il disegno e l’articolo dell’accordo —che non prevede tagli specifici ai firmatari, ma che ogni paese fissa i propri obiettivi—è stato adattato alle esigenze degli Stati Uniti. Il testo di Parigi è stato ripulito da formule vincolanti per prevenire i democratici dall’aver nuovamente problemi per la ratifica dell’Accordo di Parigi, all’interno del proprio paese.
Perché c’era già una storia di paura riguardo gli obblighi sul clima. È successo con il patto che ha preceduto Parigi: il Protocollo di Kyoto. Il trattato, che obbligava i paesi sviluppati a ridurre le proprie emissioni, non è stato mai definitivamente ratificato dall’amministrazione repubblicana di George W. Bush. E non è cambiato con i governi successivi. Biden sembrava determinato a cambiare le cose, ma la sua politica ora è debole. Il problema è che è necessario agire in fretta, come avverte la scienza, e non sarà più possibile.
Nella loro opinione dissenziente, i tre giudici progressisti che si sono opposti alla sentenza, motivano che uno dei motivi principali per cui il Congresso fa molta resistanza è che un organismo come l’Agenzia per la protezione dell’ambiente (EPA) “può rispondere, in modo adeguato e proporzionale, al nuove e grandi sfide”.
“Il Congresso sa ciò che non sa e non può sapere quando scrive una legge; pertanto, conferisce a un’agenzia esperta il potere di affrontare i problemi, anche i più grandi, man mano che si presentano. Così ha fatto il Congresso”, concordano i tre giudici, assicurando che la sentenza “priva l’Epa del potere necessario —e quello concesso— per arginare le emissioni di gas serra”.
I sei giudici conservatori sostengono invece che è necessaria una delega chiara, espressa e concreta del Congresso affinché l’EPA possa imporre limiti alle emissioni. Biden non ha la maggioranza al Congresso per far approvare una nuova legislazione restrittiva. “Il tribunale oggi impedisce l’azione di un’agenzia autorizzata dal Congresso a ridurre le emissioni”, continuano i giudici.
“La corte si nomina, piuttosto che il Congresso o l’agenzia di esperti, come responsabile della politica climatica. Non riesco a pensare a cose molto più spaventose. Dissento rispettosamente”, scrive il giudice Elena Kagan nella sua opinione dissenziente, che fa parte della sentenza di 89 pagine ed è anche firmata da Stephen Breyer e Sonia Sotomayor.
“La magistratura e il legislatore stanno seriamente ostacolando la capacità di Joe Biden di portare a termine il lavoro sul clima”, ha riassunto ieri Richard Lazarus, professore di diritto ambientale all’Università di Harvard, in dichiarazioni al New York Times.
Questo nuovo colpo della Corte Suprema arriva in un momento molto delicato per la lotta per il clima in cui l’aumento dei prezzi dei combustibili fossili e la guerra in Ucraina hanno allontanato ancora di più molte potenze dai loro impegni climatici. L’ultimo vertice sul clima, svoltosi a novembre nella città scozzese di Glasgow, si è concluso con un appello a ridurre gli aiuti pubblici per i combustibili fossili. Ma la maggior parte dei paesi sta ora aumentando questi sussidi di fronte all’aumento dei prezzi della benzina e del diesel.
E, dopo il loro ultimo incontro, i membri del G-7 hanno rilasciato una dichiarazione pubblica in cui difendevano “gli investimenti pubblici nel settore del gas” come risposta “temporanea” alle restrizioni sull’arrivo del gas russo. Quel vertice ha anche portato all’impegno di più di cento paesi a ridurre le emissioni di metano del 30% entro la fine di questo decennio. Quella promessa è stata guidata dall’Unione Europea e da Biden.
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