Leqembi è il nome del nuovo farmaco che potrebbe rappresentare una svolta nella cura della malattia di Alzheimer. I risultati misurabili hanno mostrato che potrebbe dare risultati importanti nel rallentamento della malattia, ma la sua somministrazione dovrebbe essere mirati a fasi in cui la patologia non risulta ancora in uno stato avanzato. Gli esperti che si sono espressi sul suo reale beneficio, però, sono ancora divisi tra chi lo ritiene una via promettente per il futuro della patologia e chi, invece, resta ancora perplesso. Ecco i dati che ha evidenziato l’utilizzo del farmaco e quali potrebbero essere i benefici che apporterebbe.
La malattia di Alzheimer rappresenta ancora un grosso problema per moltissime persone, costrette a confrontarsi con una degenerazione costante e via via a un’invalidità terrificante anche per chi ha la sfortuna di assistervi. Una spersonalizzazione a cui da decenni il mondo della medicina e della ricerca tentano di mettere una pezza, attraverso diverse sperimentazione, senza che ci sia ancora una cura decisiva. Una nuova speranza ora è arrivata dal nuovo farmaco di nome Leqembi, già approvato dalla Fda, e che promette di rallentare gli esiti della malattia. I dubbi, però, permangono sotto diversi punti di vista, nonostante i dati e i progressi messi in luce: vediamo perché e come potrebbe innovare gli standard di cura per l’Alzheimer.
Si conosce ciò che si riconosce. Lo impari nei primi anni di studi scientifici, già dai primi studi di anatomia, in realtà, e si capisce molto presto quanto sia vero e concreto. E comunque, però, non si tratta per forza di qualcosa che bisogna sperimentare nelle aule o sui libri di testo, ma di una verità che può essere anche piuttosto triste. È questo il caso della malattia di Alzheimer. Si tratta di un morbo che nella maggior parte delle situazioni è molto difficile da affrontare sotto il punto di vista sanitario e sociale.
È la forma più comune di demenza e nello specifico una malattia neurodegenerativa a carico delle cellule nervose che man mano, con il procedere della patologia, vengono distrutte in gran numero. Soprattutto vengono colpite le aree del cervello che regolano i processi di memoria e apprendimento. In pratica, si arriva a situazioni talmente gravi da non riuscire a riconoscere neanche i propri familiari, coloro con i quali si è trascorsa gran parte della propria vita, ma anche a non riuscire a svolgere in autonomia azioni quotidiane semplici e che in precedenza si davano per scontate.
Oltre ai danni che vengono riscontrati alla materia grigia e alle cellule nervose, si può notare anche un evidente stato di infiammazione cerebrale persistente e seri danni ai vasi sanguigni. A livello internazionale si stima che i malati di Alzheimer nel mondo siano ogni anno circa 55 milioni: un numero enorme e che potrebbe essere ulteriormente in crescita. Questo fa intendere con relativa semplicità le ricadute che questo fenomeno ha e potrebbe ulteriormente avere sulla società nei prossimi decenni se non si riuscisse ad arginarlo attraverso cure specifiche. Una missione che da anni è oggetto di ricerca da parte di numerosi team di scienziati, che finora hanno garantito qualche speranza in più, ma non una soluzione definitiva.
È importante sottolineare anche le forme di Alzheimer si dividono in quelle familiari che dipendono da mutazioni genetiche a monte e quelle sporadiche che hanno l’età avanzata come principale fattore di rischio, ma per cui spesso non viene determinata una causa specifica. Già nelle forme precoci della malattia, si iniziano a notare aggregati di proteina β amiloide che possono variare per forma e dimensione. Quello che si sa con certezza è che provocano le disfunzioni e i disturbi tipici che caratterizzano questa malattia. Un altro target importante che permette di individuare e specificare il morbo è costituito dalla proteina tau. In questo caso, si formano dei veri e propri grovigli all’interno dei neuroni. Si inizia a creare, quindi, lo stato infiammatorio di cui vi parlavamo sopra e che è a monte uno degli esiti che alimenta la patologia e che la rende terribilmente difficile da arrestare.
I vari step della malattia, dall’inizio alle fasi più tardive, sono caratterizzate da un declino cognitivo che si aggrava in maniera direttamente proporzionale alla progressione del morbo. Negli anni sono state perfezionate le tecniche per la diagnosi che sono progredite con l’avanzamento delle tecnologie atte a verificare lo stato cerebrale. Per la diagnosi definitiva, però, avviene comunque solo post mortem. Resta sempre molto complicato, in ogni caso, riconoscere un paziente affetto da Alzheimer nelle prime fasi dall’insorgenza della patologia. Anche perché diversi studi hanno messo in evidenza come, in realtà, i neuroni iniziano a riportare danni significativi anche molti anni prima che arrivino i sintomi.
E le cure utilizzate per arginarli non danno tante speranze in più, dato che tendono appunto solo ad alleviare i sintomi e non a curare del tutto la malattia. Proprio per questo, l’aspettativa di vita dei pazienti affetti resta comunque bassa e i tempi sono decisamente allarmanti. Si parla, infatti, di un arco che va dai sei ai dieci anni da quando vengono percepiti concretamente i primi sintomi. Il decesso avviene, di solito, a causa di complicazioni a causa del sistema polmonare, come ad esempio broncopolmoniti, oppure per gli esiti della malattia come le piaghe da decubito o rotture letali del femore.
È chiaro che l’unica strada per tentare di arrestare il processo sia quella della ricerca. Diversi progetti e strade differenti sono ancora oggi in via di sviluppo per cercare la via giusta per arginare il morbo e i suoi esiti sulle persone affette. Oggi, quindi, vi parliamo di Leqembi, un farmaco che promette di rallentare la progressione dell’Alzheimer e che ha già dato dei risultati importanti in tal senso.
Questa cura è stata già autorizzata dalla Food and drug administration che, quindi, ha deciso di dare ulteriore rilevanza a questo tipo di ricerca. Ne ha parlato anche Billy Dunn, direttore del dipartimento di neuroscienze presso il Center for Drug Evaluation and Research della Fda e le sue dichiarazioni rappresentano un ulteriore grido di speranza: “Si tratta dell’ultima terapia per tentare di mirare il processo patologico che è alla base dell’Alzheimer, anziché continuare a combattere solo i suoi sintomi”, ha detto in maniera chiara ed esplicita.
Leqembi, infatti, come evidenziato da Dunn, fa parte di tutti quei farmaci che hanno come target la patofisiologia e quegli step che sono alla base del funzionamento e della progressione del morbo. A svilupparlo è stata l’azienda giapponese Eisai in collaborazione con gli americani di Biogen. Negli studi che sono stati portati avanti, i pazienti sono stati seguiti attraverso una scala di 18 punti, tramite cui sono stati monitorati diversi parametri fondamentali per comprendere l’avanzamento della malattia e dei suoi sintomi: nello specifico, si tratta di memoria, giudizio e di diverse capacità cognitive che solitamente vengono inficiate – spesso in maniera irrimediabile – dal morbo di Alzheimer. I pazienti a cui è stato somministrato Leqembi mettono in luce un avanzamento più lento dei disturbi e, in particolare, un rallentamento della degenerazione che corrisponde a un periodo di poco più di cinque mesi. Nella scala utilizzata, è un ritardo di mezzo punto.
Dati che tanti ritengono promettenti, ma che tanti altri pensano siano insufficienti per validare la portata che il farmaco potrebbe avere per la cura della malattia. Di quest’ultimo avviso è, per esempio, Matthew Schrag che svolge il ruolo di ricercatore in neurologia presso la Vanderbilt University. Secondo lui, il rallentamento dovrebbe corrispondere almeno a un punto per essere considerato veramente significativo. Ancora più netto è stato Joy Snider, un neurologo che svolge la sua professione presso la Washington University di St. Louis: “Il Leqembi non è una cura. Non impedisce alle persone di peggiorare, ma rallenta in modo misurabile la progressione della malattia”. Snider sottolinea poi come la somministrazione del farmaco darebbe alle persone affette solo un periodo di tempo stimabile da sei mesi a un anno per continuare a guidare o a svolgere attività quotidiane.
Il neurologo della Washington University ha messo in evidenza anche un altro problema relativo il farmaco e ciò i fastidi che provoca la sua somministrazione. In parole povere, Leqembi necessita di due infusioni al mese per dare dei vantaggi e può provocare effetti collaterali non indifferenti, come gonfiore al cervello o rischio aumentato di sanguinamento. Quest’ultimo caso si presenta soprattutto in soggetti che sono costretti ad assumere altri farmaci, ad esempio quelli per fluidificare il sangue o per prevenire episodi di ictus.
Insomma, di strada ancora ce n’è da fare e la sensazione è che Leqembi non possa essere, anche nella migliore delle ipotesi, quella luce che ci si aspetta per vincere una volta per tutte la battaglia contro l’Alzheimer. Non per questo bisogna darsi per vinti e abbandonare la ricerca: anzi, continuare a cercare una cura e dei farmaci che agiscano sui meccanismi fisiopatologici della malattia è ancora la prima strada per tentare di arginare un morbo che ogni anno spezza la vita di milioni di persone e famiglie. La speranza resta l’ultima a morire e non può essere riposta sotto il tappeto: ne va di una società che rischia di essere sempre più distrutta, a partire dalle sue basi sociali, da una malattia ancora troppo difficile da curare.
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