La Basilicata è la più grande riserva petrolifera d’Italia, ma questo non è un bene per ambiente e popolazione. Cosa succede.
La Basilicata è comunemente nota per la sua bellezza, tra boschi, montagne e colline. Tra queste bellezze naturali risalta tuttavia il metallo del Centro oli più esteso d’Italia. Un dettaglio persistente che sottolinea la sua presenza ovunque si vada in Val d’Agri, con la sua fiamma continuamente alimentata, il rumore senza fine, il gas e lo zolfo. Ne sanno qualcosa ambiente e popolazione locale, che vivono i lati nascosti della più grande riserva petrolifera d’Italia.
Che questa regione fosse ricca di petrolio è stato chiaro sin dal 1878, quando durante l’esposizione universale a Parigi molti si stupirono davanti alla boccetta di quel liquido nero arrivata dalla Basilicata.
E a confermare questa risorsa della regione Basilicata c’è un rapporto del 1902 della società geologica italiana. In esso si legge di una piccola fonte di acqua e petrolio, che lo emetteva continuamente anche se in piccole quantità. Non si era però ancora arrivati alle trivellazioni e all’estrazione.
Tutto è iniziato a metà degli anni 30, quando l’Agip, nata da poco, iniziò piccole trivellazioni nella zona. Fino ad arrivare ai nostri giorni. Ad oggi, la Basilicata è la più vasta riserva di petrolio in Italia. Da qui si produce il 70,6% del petrolio italiano, insieme al 14% del gas. Tutto ovviamente a discapito dei contadini che abitavano nella zona, e dell’ambiente.
Dando uno sguardo dall’altitudine del Sacro Monte, è tutto un alternarsi di pozzi recenti e vecchi, spesso in mezzo ai boschi. E chi abitava qui un tempo ora non c’è più, circolano solo tecnici e operatori delle compagnie di estrazione.
I locali percepiscono la presenza di questi operatori e del Centro oli in generale come gli indigeni percepivano quella dei coloni. E inevitabilmente la presenza di questo gigante di metallo ha influito profondamente sulla vita delle comunità circostanti.
Prima fra tutte quella di Viggiano, borgo di poco più di 3000 abitanti che si trova in prossimità del Centro oli, oltre che dei 20 su 27 pozzi di petrolio attivi. La storia di queste persone è, in un modo o nell’altro, legata al petrolio. Alcuni hanno guadagnato per una parte di terra venduta per scavare, altri ogni tanto fanno dei lavoretti al Centro oli o nei pozzi, e chi ha familiari che ci lavorano.
E nonostante i locali non amino parlare della questione, tutti sono consapevoli dei danni ambientali che il petrolio produce. Soprattutto il comune, tant’è che in molti punti in cui sono presenti fontanelle per abbeverarsi c’è anche un cartello ad indicare che l’acqua non viene controllata.
E in effetti il problema acqua c’è, perché è stato appurato che l’acqua che sgorga da una vicina sorgente a 1.200 m di altitudine nei boschi di Calvello è inquinata. I devoti alla Madonna, però, la bevono comunque, fermi nella convinzione che non possa fare male.
Ed è proprio il borgo di Viggiano il centro della produzione di petrolio in Italia. Qui si trovano 20 tra i 27 pozzi presenti in Val d’Agri, oltre al Centro oli.
In questo impianto si separano gas e parte liquida, dopodiché il gas e lo zolfo vengono compressi ed entrano nel circuito della Snam per la distribuzione. Il greggio, invece, viene inviato a Taranto con l’oleodotto, da dove poi arriva in Turchia.
Per questo, Viggiano si trova sopra un reticolo nascosto di tubi che trasportano ogni giorno 3,4 milioni di metri cubi di gas. Insieme a questi, sotto il paesino circolano 13.017.012 litri di petrolio. Grazie al petrolio Viggiano è il comune più ricco in Europa per la produzione di petrolio, che si trova però in una tra le regioni meno ricche del nostro Paese.
Perché il più ricco? Perché l’Ente nazionale idrocarburi paga ogni anno cifre stellari al Comune per lo sfruttamento del territorio. Si parlava, fino al 2010, del 7% del totale ricavato dall’estrazione. Poi, si è passati al 10%. Dal 1998 al 2013, l’Eni ha affermato di aver pagato 1,16 miliardi di euro.
Ciò significa che ogni anno il comune di Viggiano percepisce in questo modo 11 milioni di euro. E con quei soldi vengono finanziate feste e sagre di paese, e il borgo viene imbellito. Ciò però non impedisce il fenomeno della fuga dei giovani, che fa sì che nel borgo rimangano solo gli anziani.
Ma ciò che più preoccupa chi si è preso il tempo di analizzare la situazione è l’impatto antropologico che la presenza del Centro oli ha avuto sul territorio interessato. L’estrazione di petrolio ha modificato il rapporto tra gli abitanti del posto e la natura, e ha avuto un impatto sanitario e identitario. Che significa?
Fino a poco tempo fa, i lucani si identificavano nella loro terra, culturalmente e socialmente. La purezza dell’acqua e la genuinità dei prodotti erano un caposaldo della cultura locale. Adesso, i locali sanno che questi valori potrebbero essere compromessi, e questo ha modificato la loro stessa identità. La natura è diventata una minaccia di morte.
Per coprire la faccenda, la Regione utilizza i fondi derivati dall’estrazione per finanziare il sistema sanitario e altri servizi al cittadino. Ma questo non basta. Comunque, finora nessuno è riuscito nell’intento di dimostrare il legame tra il Centro oli e i pericoli per la salute dei cittadini.
In questo contesto, è una lotta aperta tra la scienza ufficiale che attesta la versione più veritiera di questa situazione, quella delle aziende che fanno gli interessi dei petrolieri e quella degli studiosi, medici e geologi che studiano il territorio e le persone, e denunciano la situazione.
E poi, ci sono gli abitanti del posto, che hanno una scienza tutta loro, fatta di esperienza. L’esperienza di chi non sopporta più il continuo rumore di sottofondo, soffre per la puzza di zolfo e teme di bere l’acqua delle sorgenti perché sa.
Questi scienziati fai da te conoscono il territorio, e sanno che oggi la val d’Agri non è più la stessa.
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