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Salute

La verità sul rooming-in dal punto di vista scientifico (e quella reale dal punto di vista pratico)

Il rooming-in è una pratica che dovrebbe favorire il rapporto mamma-neonato, eppure negli ultimi giorni, dopo il caso del bambino di soli tre giorni morto al Pertini di Roma, sta emergendo anche il suo lato oscuro, fatto di richieste di aiuto non ascoltate, di supporto inesistente, di donne lasciate completamente sole a occuparsi di una nuova vita in un momento delicatissimo in cui avrebbero bisogno solo di riposo, cure, sostegno. Alcune delle principali società scientifiche italiane d’area perinatale hanno deciso di rompere il silenzio e di dire la loro su questa pratica e sui suoi reali benefici.

Mamma e neonato – Nanopress.it

La pratica del rooming-in ha luci e ombre. E lo hanno raccontato – e lo stanno raccontando – tantissime donne in questi giorni. C’è chi ha parlato di violenza ostetrica, chi di carenza del personale, chi dei protocolli post-Covid che hanno complicato ulteriormente un quadro che già non era fatto di pennellate dolci. Insomma, sembra che dietro questa prassi – che, di fatto, di questo si tratta – ci sia un mondo che è stato celato per anni, ma che esiste da tempo immemore. Mentre tutto il Paese è ancora scosso per la vicenda della 29enne romana, Alcune delle principali società scientifiche italiane d’area perinatale, attraverso un comunicato congiunto, hanno deciso di dire la loro.

Il rooming-in tra benefici e pecche

“Il rooming-in consiste nella possibilità per la neomamma di avere il bimbo nella propria stanza 24 ore su 24 e occuparsene fin da subito, con la garanzia del supporto del personale sanitario”: questa definizione gentilmente offerta dal sito Nurse24.it riassume in sostanza questo concetto ormai divenuto così discusso negli ultimi giorni. Subito, però, salta all’occhio un particolare.

C’è una parola che proprio non torna e non basta rileggerla mille volte, perché proprio non convince: “supporto”. Sì, perché questo è (anzi, dovrebbe essere) sinonimo di “aiuto”, “appoggio”, “sostegno”. E allora, se questa pratica è finalizzata ad arrivare a questo, perché Giulia ha affermato che negli ospedali “non c’è aiuto, non c’è empatia, non c’è sostegno”, Katia ha definito quelli dopo la nascita di suo figlio “i cinque giorni più brutti della mia vita”, Francesca ha raccontato che alla sua richiesta di aiuto le fu risposto semplicemente “Poi a casa come fa? Deve abituarsi subito a tribolare” (e potremmo continuare così all’infinito, perché di lettere arrivate da donne provenienti da tutta l’Italia ce ne sono state tantissime).

Sì, perché bisognerebbe capire che una madre è prima di tutto una donna, con le sue fragilità, le sue debolezze, ma più di tutto è un essere umano e necessita di sostegno esattamente quanto tutti gli altri. Aver messo al mondo un figlio non significa non avere bisogno di supporto per il semplice fatto di avere davanti una vita da accudire, anzi. Una neomamma verosimilmente ha bisogno di ancora più cure, soprattutto all’inizio, può sentirsi scossa, stressata, spossata e non c’è nulla di male ad ammetterlo e chiedere aiuto.

“Ero stravolta, ho chiesto aiuto alle infermiere, chiedendo loro se potevano prenderlo almeno per un po’, mi è sempre stato tuttavia risposto che non era possibile portarlo nella nursery”: con queste parole la 29enne mamma del piccolo di soli tre giorni morto al Pertini di Roma ha riassunto quello che è accaduto quella tragica notte in cui ha visto per l’ultima volta il suo bambino e gli si è addormentata letteralmente sopra mentre lo stava allattando. Era la terza notte di fila in cui non riuscita praticamente quasi per nulla a dormire, dovendosi occupare da sola di suo figlio appena nato. Si poteva evitare questa tragedia? Chi può dirlo. Sappiamo, però, che qualcosa è andato storto sicuramente e che al suo grido di aiuto nessuno ha risposto nelle ore che hanno preceduto il dramma.

Mamma e neonato – Nanopress.it

Mentre la petizione contro la violenza ostetrica lanciata su Change.org dall’Associazione Mama Chat dal nome “Basta morti inutili e mamme sole! Chiediamo di garantire accompagnatori H24 alla nascita” ha raggiunto in meno di 24 ore più di 100mila firme, le mamme e le neomamme di tutta Italia stanno cercando di esprimere massima solidarietà alle 29enne a suon di “Poteva succedere a me”, alcune delle principali società scientifiche italiane d’area perinatale hanno scritto un comunicato congiunto in cui dicono la loro sul rooming-in.

Il comunicato delle società scientifiche

Alcune delle principali società scientifiche italiane d’area perinatale – la Società Italiana di Neonatologia (SIN), la Società Italiana di Ginecologia ed Ostetricia (SIGO), la Società Italiana di Pediatria (SIP) e l’Associazione Ostetrici e Ginecologi Ospedalieri Italiani (AOGOI) – dopo il caos generato in seguito al caso del Pertini di Roma e alle polemiche continue sul rooming-in, hanno pensato bene di scrivere un comunicato congiunto in cui esprimono il loro parere sui benefici di questa pratica.

Si legge infatti chiaramente che attualmente la maternità: “prevede la gestione congiunta di madre e bambino, il cosiddetto rooming-in, che va proposto fornendo il necessario sostegno pratico e psicologico alla nuova famiglia”. Secondo le società, in pratica, la gestione che vigeva in passato – consistente nel separare madre e figlio – non era utile al fine di creare una vera e propria relazione tra di loro e inoltre non era neanche un’operazione sicura al 100%, almeno non tanto da scongiurare eventi tragici.

In effetti questa pratica, introdotta già negli anni ’80 sulla base del modello Unicef e Oms al fine di permettere alle madri di instaurare fin da subito un contatto con il bambino, potendo restare insieme nella stessa stanza, dovrebbe favorire il bonding e l’allattamento al seno subito dopo la nascita e ridurre il pianto del bambino.

C’è un però. Le società parlano di sostegno pratico e psicologico alla nuova famiglia, ma questo non sempre c’è davvero. Come ha spiegato Alessandra Bellasio, ostetrica e divulgatrice sanitaria su Unimamma.it, parlando con il Fatto Quotidiano, infatti, questa pratica “può diventare controproducente qualora la madre avesse necessità di riposare o riprendersi da un parto difficile o da un intervento chirurgico. In questi casi, infatti, il rooming in dovrebbe essere interrotto per garantire alla mamma gli adeguati tempi di recupero”, perché “la pratica del rooming in positiva quando la madre non è sola. Il suo bisogno di riposare sembra percepito come un lusso”.

Le società poi parlano del “collasso post natale”, Sudden Unexpected Postnatal Collapse (SUPC), che in realtà è rarissimo – si stimano otto neonati su 100mila – ma non comunque impossibile, quindi va considerato. In genere si verifica durante la prima settimana dopo la nascita del bambino ed è causato da patologie già presenti, ma non diagnosticate, quindi in bambini che fino a un attimo prima apparivano perfettamente sani. Questo evento comunque può essere prevenuto, eliminando i cosiddetti fattori di rischio.

Tra questi pare esserci – anche se non c’è scritto chiaramente, ma lo si evince comunque – il co-sleeping (che consiste cioè nel dormire insieme al neonato), una pratica altamente sconsigliata e ritenuta non sicura, soprattutto quando non siano presenti altri caregiver, che siano questi familiari oppure operatori sanitari. Ma quando una donna, esausta per non aver dormito magari per giorni, non potendo contare né sul marito/compagno né su altri parenti che non posso assisterla a causa dei protocolli post-Covid, chiede aiuto al personale, ma nessuno le risponde? Di questo le associazioni non parlano, ma si limitano a scrivere che questa “prudenza” dovrebbe essere mantenuta intatta non solo nei primi giorni di vita del bambino, ma almeno durante i primi sei mesi.

E poi aggiungono che comunque può capitare di addormentarsi con il bambino nel proprio letto, nonostante le cautele, e che “si tratta di un evento che più che essere drammatizzato, richiede un rinforzo di informazione alle famiglie sulla sicurezza del bambino durante il sonno”. Secondo loro, però, è vero che il personale sanitario è carente in tutta l’Italia (quindi è un problema a livello nazionale), ma lo è altrettanto che questo non è un motivo sufficiente per tornare indietro a “proposte assistenziali involute”, come ad esempio quella della gestione separata.
In sostanza, riassumendo quello che a cui le associazioni vogliono arrivare a far capire è che la pratica del roomig-in può giovare davvero alle madri e ai figli, ma perché questo accada è necessario che tutte le famiglie siano “adeguatamente informate, coinvolte e supportate” e che, dal canto loro, “gli operatori sanitari offrano un’assistenza per quanto possibile individualizzata ed empatica in modo che l’indicazione istituzionale a praticare il rooming-in sia declinata in maniera appropriata”.
Solo che entrambi i punti presentano delle pecche. Sul primo punto ci sarebbe tantissimo da dire: da quando è arrivato il Covid – cioè negli ultimi tre anni ormai – ai familiari della madre non è concesso entrare, solo il padre può farlo e spesso per periodi limitatissimi (alcuni possono restare in ospedale solo un’ora al giorno), quindi le donne restano sole per tantissimo tempo e non possono contare neanche sul supporto dei mariti/compagni. Ci potrebbero essere delle soluzioni a questo problema (se l’uomo dovesse essere positivo, del resto, contagerebbe la donna e il bambino anche restando solo 60 minuti con loro), ma pare che nessuno voglia attivarsi per cambiare questi protocolli che ormai sembrano non essere neanche più giustificata dalla gravità del virus, com’era ad esempio all’inizio della pandemia. Sul secondo punto, invece, c’è poco da aggiungere: è la storia del neonato morto al Pertini di Roma a parlare, così come le tantissime delle donne che in questi giorni hanno voluto rompere il silenzio e raccontare le loro esperienze negative. Non possiamo fare di tutta l’erba un fascio e sicuramente ci sono strutture che sanno prendersi cura davvero anche delle mamme, ma in altre – e non sembrano essere pochissime – questa fantomatica “assistenza per quanto possibile individualizzata ed empatica” sembra proprio mancare del tutto. E anche su questo si dovrebbe fare qualcosa urgentemente: casi come il succitato non devono verificarsi mai più.
Anna Gaia Cavallo

Mi chiamo Anna Gaia Cavallo, ho 30 anni, sono nata a Salerno e lì ho vissuto fino ai miei 18 anni. Poi il viaggio verso Siena per l'università, la laurea in economia e gestione d'impresa e poi il ritorno nella mia città natale. Qui, dopo un anno di lavoro nel settore economico, ho capito che non era questa la strada giusta per me e ho deciso di seguire quella che era sempre stata la mia più grande passione fin da piccola: la scrittura. A quel punto ho lasciato tutto quello che avevo costruito nei sei anni precedenti e ho intrapreso un altro percorso, quello che mi ha portato a diventare giornalista. Iscritta all'albo dei pubblicisti della Campania dal 2019, dopo aver attraversato diversi mondi, sono approdata sul pianeta Nanopress nel 2022 come editor e qui amo occuparmi di cronaca e attualità, ma quando mi capita di scrivere di musica raggiungo il massimo del piacere.

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