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La violenza di genere va maneggiata con cura, il caso di Un Posto al Sole lo dimostra

La Rai è finita (di nuovo) al centro di una polemica social per aver mostrato una narrazione della violenza antitetica rispetto a quella a cui siamo abituati. La fiction incriminata è Un posto al sole, che ha mostrato la vicenda di una 18enne, Alice, che ha provato a denunciare uno stupro, ma che in realtà ha trovato davanti a sé un muro di dubbi, da parte di sua madre in primis. Questo ha indignato alcuni spettatori, ma soprattutto Aestetica Sovietica, che già in passato si era occupata della visione che l’azienda fornisce degli abusi, che si incentra più sul far passare la vittima come bugiarda, che sul condannare i carnefici. Questa volta, però, qualcosa non torna: questa narrazione è diversa da quelle passate, era davvero giusto condannarla? Ragioniamoci su.

Rai – Nanopress.it

Che la Rai negli anni passati abbia sbagliato a raccontare tantissimi casi di violenza in cui le donne erano viste come bugiarde, è chiarissimo a tutti. Lo è soprattutto alla luce del fatto che è risaputo ormai che in Italia (ma non solo) tantissime vittime di stupro sono restie a parlare e denunciare proprio per paura di non risultare credibili, ma questa volta il racconto protagonista di una puntata di Un posto al sole pare essere ben diverso dagli altri. Ecco perché.

La Rai condannata di nuovo per come ha trattato un caso di violenza

“Ci risiamo. La Rai lo ha fatto di nuovo. E no, non stiamo parlando di Sanremo, di Amadeus al timone et similia, stiamo parlando della visione sfocata che puntualmente l’azienda fornisce dello stupro”. Sarebbe potuto iniziare così questo articolo, alla luce dei casi pregressi e delle critiche ai danni dell’azienda, eppure questa volta è accaduto qualcosa di diverso rispetto al passato. Per capire meglio, però, procediamo step by step.

Circa un paio di anni fa, Aestetica Sovietica alzò un polverone su come la Rai maneggiava, sviscerava e mostrava al pubblico i casi di stupro. Polverone da cui attinsero praticamente tutte le testate nostrane, perché – oggettivamente – erano stati troppi in troppo poco tempo i casi riportati seguendo sempre lo stesso copione del “la donna racconta di essere stata violentata per X motivo, ma mente”.

Adesso però il discorso è questo: la pagina (seguitissima tra l’altro) ha rimarcato di nuovo questo concetto, circa 23 mesi dopo, ma questa volta qualcosa non torna. Anzi, torna anche, ma le accuse non reggono più.

Questa volta teatro di questa messinscena è Un posto al sole, una fiction a dir poco celebre in Italia, in onda dal lontano ’96, che ancora oggi registra mediamente ogni sera 1 milione e 800mila spettatori. La protagonista di questa triste vicenda è Alice, 18enne che denuncia uno stupro da parte di Nunzio, con cui in precedenza ha avuto una liaison, che però è innamorato di un’altra ragazza. Così si reca dalla madre per chiedere aiuto, ma anziché trovare il conforto che cercava trova un muro composto da dubbi, illazioni e incertezze sulla sua credibilità. Alice si sarebbe aspettata un bacio, un abbraccio e un “tranquilla, ti aiuterò io” e invece si trova a sentire solo “può essere che sia stata una tua paura, in fondo che motivo aveva di costringerti?”. 

La donna fa poi notare alla figlia che già in passato aveva mentito su temi molto seri e importanti e che quindi il problema di fondo non era la veridicità in sé delle sue parole, ma che prima di correre a denunciare un ragazzo che sarebbe potuto essere innocente, avrebbe voluto solo avere delle certezze in più. Cosa che, vista dall’esterno, può essere interpretata in due modi: se la guardiamo dal punto di vista di una madre che si sente dire dalla figlia adolescente che è stata stuprata, è giusto condannare questo atteggiamento perché i genitori dovrebbero proteggere i ragazzi a ogni costo, ma se invece guardiamo la vicenda dal punto di vista della madre del ragazzo, altrettanto giovane, potrebbe essere giusto avere quantomeno delle certezze assolute prima di rovinare per sempre la vita di un ragazzo di neanche vent’anni.

Effettivamente, però, al netto di questo “gioco” di prospettive, detto così – soprattutto raccontato a chi non segue la soap e non ha visto la puntata – potrebbe sembrare una narrazione a primo impatto misogina, antiquata e completamente fuori luogo. Del resto, perché una ragazzina appena maggiorenne dovrebbe inventare di sana pianta di essere stata violentata?

In effetti, dati alla mano, è ormai risaputo che moltissime donne in Italia (e non solo) non denuncino gli stupri per la paura di non essere credute. Nel 2017 – quindi neanche sei anni fa – la Stampa aveva riportato un’interessante, ma al contempo inquietante, analisi effettuata dall’Istat nel 2014 – quindi circa nove anni fa – da cui si evinceva che nel Belpaese i casi di violenze denunciate sono circa 4mila, ma in realtà a queste si dovrebbero aggiungere tutti quelli insabbiati, che sarebbero circa il 92,5% in media.

Stando poi ai racconti delle stesse lettrici pervenuti tramite l’Occhio dei Lettori, la piattaforma di giornalismo partecipativo lanciata dal quotidiano, moltissime donne non hanno raccontato a nessuno delle violenze ricevute per tempo immemore perché, quando hanno provato a farlo, le reazioni delle persone circostanti (soprattutto degli uomini, ma in alcuni casi anche di altre donne, anche appartenenti allo stesso nucleo familiare) rientravano in due filoni: c’era da un lato chi minimizzava l’accaduto, dall’altro chi lo reputata inventato.

Logicamente negli anni più si è parlato di questa tendenza al “non credere”, più le vittime di violenza sono diventate restie a parlare, per paura di doversi sentire anche mortificare, puntare il dito contro, ridicolizzare. 

Ecco che quindi torniamo al punto di partenza: perché la Rai ha consentito che scene analoghe andassero in onda? E in effetti detto così è una domanda più che lecita e sarebbe anche giusto indignarsi (soprattutto alla luce dei succitati casi simili passati). Qui però subentra una variabile di cui non possiamo non tenere conto: il contesto della narrazione. Ci spieghiamo meglio: finché erano fiction – senza fare nomi, non è necessario – che vivevano in un universo lontano anni luce da queste tematiche e in cui quindi alcuni racconti erano solo fuori contesto e basta, era giustissimo polemizzare, ma Un posto al sole, come hanno rimarcato anche tantissimi utenti, è non rientra tra queste, anzi.

Sì, perché questa fiction non può essere condannata, perché tra tutti i prodotti Rai è uno di quelli più avvezzo ad affrontare temi caldi (anzi, bollenti potremmo dire) della nostra epoca, inerenti cioè alla violenza di genere, agli uomini narcisisti e manipolatori, a tematiche queer, alla genitorialità omosessuale e transessuale, all’integrazione multiculturale, al degrado, agli abusi di ogni tipo e chi più ne ha più ne metta. Anzi, vi diremo di più, perché tra le protagoniste di Un posto al sole due dirigono un centro antiviolenza e spesso la fiction si è schierata – nettamente tra l’altro – su questi argomenti, condannando qualsiasi tipo di violenza.

Un posto al sole – Nanopress.it

Adesso la domanda è questa: siamo sicuri che faccia bene polemizzare su tutto quello che ruota attorno a questi temi, senza contestualizzarli e senza capire che a volte può fare bene fornire due facce della stessa medaglia?

Davvero era il caso di polemizzare su quel racconto?

Sia chiaro: il presupposto da cui dovremmo partire è che nessuna donna – e sottolineiamo nessuna – dovrebbe sentirsi non in grado di denunciare un qualunque abuso per paura di essere giudicata, per il timore di essere accusata di mentire, per un senso di vergogna derivante anche dai tanti casi in cui chi ha parlato è stata anche bistrattata.

Allo stesso tempo, però, dovremmo ammettere che esistono anche casi  opposti, in cui uomini – ma anche donne – denunciano immotivatamente spinti ad esempio dalla rabbia, dal rancore, dalla voglia di vendicarsi e basta. Potremmo passare in rassegna tutti i casi che rientrano in questa sfera registrati negli ultimi anni, ma ci limiteremo a fornire l’esempio più mediatico degli ultimi tempi: il caso Johnny Depp-Amber Heard.

Riassumendo brevemente, i due attori sono stati sposati, hanno divorziato e lei ha accusato lui di essere stato violento con lei più volte in più modi e questo gli è costato caro, perché praticamente alla soglia dei 60 anni si è ritrovato senza lavoro all’improvviso, è stato escluso da tutti i progetti a cui avrebbe dovuto prendere parte e la sua reputazione ovviamente si è sgretolata in mille pezzi in pochi mesi.

Al termine di un recentissimo processo le cui immagini hanno fatto il giro del mondo, però, la situazione si è ribaltata e si è scoperto dopo anni che in realtà è stata la Heard a essere sempre stata violenta con l’ex marito – sia verbalmente che fisicamente – e che non aveva subito alcun abuso.

Ecco, questo caso è rimbalzato su tutte le copertine, le pagine dei giornali, i siti web del Pianeta e vi è rimasto per settimane. Non era giusto neanche parlarne allora seguendo il succitato ragionamento, per non pubblicizzare vicende come questa? E invece no, conoscerla ha fatto bene a milioni di persone nel mondo, perché ha dimostrato che esiste anche la violenza di genere contro gli uomini e che capita anche che le vittime in realtà siano le vere carnefici. Non possiamo fingere che questi casi non esistano solo per la paura di ledere la dignità e la sensibilità di alcune persone, perché anche questi episodi meritano di essere conosciuti, raccontati, tramandati. La violenza è sempre violenza, in ogni forma. Lo è quella fisica, quella verbale, quella economica. Lo è a prescindere dal fatto che colpisca uomini oppure donne.

Essere condannati per un reato che non è mai esistito, vedere la propria immagine rovinarsi irrimediabilmente, sentirsi sminuire come persona per qualcosa che non è mai avvenuto, non è comunque terribile? Ecco perché anche questi episodi devono salire a galla, a patto ovviamente che non diventino un mezzo per sminuire la violenza oppure per scoraggiare le donne (e gli uomini) abusate/i a parlare.

Nel caso di Un posto al sole questo non dovrebbe avvenire, considerando che la puntata arriva dopo quasi 30 anni – 27 per essere precisi – e dopo una miriade di racconti di violenze subite e condannate in primis dagli stessi autori, che è vero, come riporta sempre Aestetica Sovietica che sono sette uomini, ma lo è altrettanto che sono gli stessi che tante volte negli anni hanno condannato loro “simili” per essere stati gli artefici di soprusi, abusi, maltrattamenti.

Come si legge sulla pagina, le linee guida di Rai Fiction parlano chiaro e dicono che l’offerta “dovrà contribuire al superamento degli stereotipi culturali attraverso una rappresentazione veritiera della realtà”. Ma in questo caso non possiamo dire che non l’abbia fatto.

Ogni avvenimento deve essere guardato da diversi punti di vista, perché solo una visione di insieme a volte riesce a rendere tutto chiaro. In questo caso, infatti, a prima vista poteva sembrare l’ennesimo caso in cui l’azienda ha preso un caso di violenza e lo ha fatto apparire finto senza se e senza ma. Eppure, osservando meglio l’accaduto, possiamo capire subito che semplicemente una soap che per anni si è occupata del tema ha voluto offrire l’altra faccia della medaglia, proprio verosimilmente per offrire agli spettatori la “rappresentazione veritiera della realtà” di cui sopra.

Non c’è nulla su cui fare polemica in questo caso, perché farla quindi? Non sarà forse che ormai quando si parla di abusi la situazione facilmente sfugge di mano a chi prova a diventarne il portatore? Non dovremmo forse in alcuni casi fermarci a riflettere e capire se è il caso di discutere su argomenti così delicati sempre e comunque, oppure se a volte sarebbe meglio tacere e basta onde evitare di alzare polveroni che alla lunga possono solo nuocere e basta? Ai posteri l’ardua sentenza.

Anna Gaia Cavallo

Mi chiamo Anna Gaia Cavallo, ho 30 anni, sono nata a Salerno e lì ho vissuto fino ai miei 18 anni. Poi il viaggio verso Siena per l'università, la laurea in economia e gestione d'impresa e poi il ritorno nella mia città natale. Qui, dopo un anno di lavoro nel settore economico, ho capito che non era questa la strada giusta per me e ho deciso di seguire quella che era sempre stata la mia più grande passione fin da piccola: la scrittura. A quel punto ho lasciato tutto quello che avevo costruito nei sei anni precedenti e ho intrapreso un altro percorso, quello che mi ha portato a diventare giornalista. Iscritta all'albo dei pubblicisti della Campania dal 2019, dopo aver attraversato diversi mondi, sono approdata sul pianeta Nanopress nel 2022 come editor e qui amo occuparmi di cronaca e attualità, ma quando mi capita di scrivere di musica raggiungo il massimo del piacere.

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