L’accordo sullo scambio di prigionieri avvenuto tra gli Stati Uniti e Iran è stato oggetto di critiche da parte di alcuni che sostengono che gli Stati Uniti abbiano ceduto al ricatto iraniano. Nonostante la tensione palpabile tra le due Nazioni che è sempre più evidente e spazia dalle scelte politiche a quelle sociali fino alla sicurezza internazionale e arrivando alla violazione dei diritti umani.
Questi critici ritengono che accettando l’accordo, gli Stati Uniti abbiano concesso determinate possibilità all’Iran senza ottenere abbastanza in cambio.
Dopo più di due anni di negoziati a porte chiuse, l’accordo sullo scambio di prigionieri tra Usa e Iran è stato finalmente raggiunto all’inizio di questo mese. Ma ciò che solleva dubbi e insinuazioni è come mai l’accordo sia stato concluso solo ora, considerando che alcuni prigionieri sono rimasti detenuti per anni.
Ci potrebbero essere diverse ragioni per questa tempistica. Innanzitutto è essenziale considerare che negoziare lo scambio di prigionieri può essere un processo complesso e delicato, che richiede tempo così come la concreta organizzazione.
Il procedimento racchiude al suo interno questioni legali, diplomatiche e di sicurezza nazionale, che devono essere affrontate con attenzione. È possibile che ci siano state difficoltà nel raggiungere un accordo che riesca a soddisfare entrambe le Parti.
Oltre a ciò anche l’atteggiamento e la politica dei governi coinvolti possono influire sulla tempistica delle trattative. Le relazioni tra gli Stati Uniti e Iran sono tese e negli anni la situazione si è deteriorata, ed è sfociata in scontri e tensioni. Solo di recente state aperte porte al cambiamento e alla trasformazione nelle dinamiche politiche e ciò ha reso possibile l’accordo.
Infine, è importante tenere presente che le trattative diplomatiche sono influenzate da una serie di fattori complessi e non sempre visibili all’esterno. Ci possono essere ragioni e considerazioni che non sono state rese pubbliche o che non sono evidenti all’osservatore esterno.
Quindi non è una prassi strana che tale tipologia di accordo sullo scambio di prigionieri tra gli Stati Uniti e l’Iran sia stato raggiunto dopo questo lungo periodo. La tempistica dell’accordo può essere attribuita a una combinazione di fattori, tra cui la complessità delle trattative, i cambiamenti politici e le dinamiche internazionali.
L’accordo sullo scambio di prigionieri tra gli Stati Uniti e l’Iran ha sollevato preoccupazioni e critiche riguardo a un potenziale ricatto da parte delle autorità di Teheran. Il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha riferito che l’accordo non è collegato ad altri aspetti della politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Iran, ma si è concentrato esclusivamente sulla liberazione dei cittadini americani e dei residenti detenuti ingiustamente a Teheran.
Nonostante ciò il Ministero degli Affari Esteri iraniano ha affermato che l’accesso ai fondi congelati dell’Iran in Corea del Sud fa parte integrante dell’accordo. Ciò ha portato alcuni critici a sospettare che l’Iran stia facendo pressioni per ottenere il rilascio dei prigionieri in cambio dell’accesso ai suoi fondi.
Il senatore repubblicano americano Tom Cotton ha accusato il presidente Joe Biden di un “vile atto di pacificazione” che avrebbe “incoraggiato” i leader iraniani. Questo indica che alcuni critici ritengono che gli Usa e più precisamente l’amministrazione Biden abbiano presumibilmente ceduto alle richieste dell’Iran e abbiano accettato l’accordo come risultato di un presunto ricatto.
L’economia iraniana affronta attualmente diverse sfide, tra cui il cambiamento climatico e la grave siccità, che hanno un impatto negativo sulla produzione agricola. Inoltre, la guerra in Ucraina ha aumentato i costi delle importazioni per l’Iran, mettendo ulteriormente a dura prova le finanze pubbliche.
Secondo Roxane Farmanfarmaian, direttrice accademica e docente di politica internazionale presso l’Università di Cambridge specializzata sull’Iran, è evidente che l’Iran si aspetta che i fondi congelati in Corea del Sud diventino accessibili per beneficiare e rinnovare la sua economia in difficoltà.
Ma è importante notare che questi fondi appartengono all’Iran e non sono un contributo finanziario da parte degli Stati Uniti.
L’accordo sullo scambio di prigionieri tra gli Usa e Iran ha sollevato preoccupazioni riguardo a un possibile ricatto. Mentre gli Stati Uniti sostengono che l’accordo si concentra solo sulla liberazione dei prigionieri, il coinvolgimento dei fondi congelati dell’Iran in Corea del Sud ha suscitato sospetti riguardo alle motivazioni dell’Iran e alle possibili pressioni esercitate per ottenere l’accesso a tali fondi.
Ci sono diverse opinioni riguardo all’accordo di scambio di prigionieri tra gli Stati Uniti e l’Iran. Alcuni sostengono che l’Iran stia effettivamente ricattando gli Stati Uniti, ma altri ritengono che gli Stati Uniti abbiano anche esercitato pressioni sull’Iran attraverso sanzioni e congelamento dei fondi.
Secondo Roxane Farmanfarmaian, direttrice accademica e docente di politica internazionale presso l’Università di Cambridge, Washington ha anche esercitato una forma di ricatto nei confronti di Teheran dopo essersi ritirati dall’accordo nucleare del 2018 e aver imposto sanzioni e congelato i fondi iraniani. Questa prospettiva suggerisce che entrambe le parti abbiano utilizzato il ricatto come strumento di negoziazione.
Kaveh Moussavi, avvocato iraniano per i diritti umani ed ex capo del dipartimento di diritto dell’interesse pubblico presso l’Università di Oxford, ritiene che l’amministrazione Biden abbia un interesse acquisito nell’evitare un conflitto in un’altra parte del mondo e sia preoccupata per le relazioni dell’Iran con la Russia.
Moussavi sostiene inoltre che gli Usa potrebbero cercare di garantire la pace tra l’Iran e i suoi vicini del Medio Oriente, inclusa la Russia, attraverso questo accordo.
Sono emerse anche opinioni divergenti all’interno degli Stati Uniti. Alcuni familiari di prigionieri non inclusi nell’accordo esprimono la loro delusione e chiedono spiegazioni sul perché i loro cari non siano stati rilasciati.
Ad esempio, Darian Dalili, il figlio di Shahab Dalili, cittadino iraniano residente permanente negli Stati Uniti, afferma che suo padre è ancora detenuto a Teheran e che non gli è stata data una spiegazione sul perché non sia stato incluso nell’accordo.
Molti esprimono dissenso verso l’accordo, sottolineando i casi di prigionieri non inclusi e chiedendo spiegazioni.
Secondo Farmanfarmaian, il fatto che Stati Uniti e Iran stiano attualmente negoziando l’accordo di scambio di prigionieri è significativo perché indica che le linee di comunicazione diretta sono aperte. A differenza dei negoziati precedenti sull’accordo nucleare JCPOA, che coinvolgevano anche delegati europei, questi negoziati sembrano essere condotti in modo più diretto. Anche se sono stati coinvolti paesi come il Qatar e l’Oman, sembra che vi siano negoziati più stretti e riservati in corso.
È difficile immaginare che Iran e gli Stati Uniti possano instaurare una relazione normale basata solo sull’accordo di scambio di prigionieri. Va notato che l’Iran ha tentato in passato di normalizzare le relazioni diplomatiche con altri paesi, come la Gran Bretagna, attraverso scambi di prigionieri, ma le sanzioni contro l’Iran sono ancora in vigore. Secondo lui, questo accordo sui prigionieri non cambierà significativamente le future relazioni con gli Stati Uniti.
Il capo negoziatore di Teheran, Ali Bagheri-Kani, ha dichiarato in un’intervista televisiva che l’Iran è riuscito a liberare i fondi bloccati senza il rilancio dell’accordo nucleare JCPOA. Durante i colloqui sul nucleare, gli Usa hanno sempre insistito sul fatto che i fondi iraniani sarebbero stati rilasciati solo dopo il raggiungimento di un accordo nucleare.
Ma l’Iran ha modellato le condizioni in modo tale che gli Stati Uniti siano stati costretti a ritirarsi dalle loro posizioni e a liberare i fondi iraniani al di fuori del quadro di un accordo nucleare.
A inizio mese, Iran e gli Stati Uniti hanno annunciato che sei miliardi di dollari congelati in Corea del Sud a causa delle sanzioni statunitensi sarebbero stati rilasciati attraverso la mediazione del Qatar, mentre l’Iran avrebbe trasferito cinque ostaggi statunitensi dalla prigione alla detenzione domiciliare. Anche se gli iraniani sostengono che il rilascio dei fondi non è legato all’accordo sugli ostaggi, è evidente che gli ostaggi vengono trattenuti fino a quando il denaro non raggiunge i conti bancari iraniani in Qatar.
Attualmente i fondi si trovano presso la Banca centrale svizzera, che li convertirà gradualmente in euro e li trasferirà in Qatar.
Bagheri-Kani ha confermato che i colloqui sugli ostaggi si sono svolti parallelamente ai negoziati sul nucleare nel 2021-2022, ma si sono interrotti a causa dell’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, che ha portato alla sospensione delle delegazioni.
Ha inoltre spiegato che l’Iran sta continuando a seguire la questione dei fondi bloccati attraverso intermediari, mentre gli Stati Uniti stanno resistendo. Nel settembre 2022, gli Stati Uniti hanno accettato di intraprendere azioni per sbloccare i fondi al di fuori dei colloqui sul nucleare, in seguito alla persistente insistenza dell’Iran.
Ma si ritiene che sia impensabile che Teheran e gli Stati Uniti possano avere una relazione normale basata solo sull’accordo di scambio di prigionieri. Secondo Moussavi, l’Iran ha tentato in passato di ripristinare le relazioni diplomatiche con paesi come la Gran Bretagna attraverso scambi di prigionieri, ma le sanzioni contro Teheran sono ancora in vigore e ciò dimostra che l’Iran non può semplicemente normalizzare le relazioni con gli Stati Uniti tramite tale accordo. Moussavi come detto in precedenza non crede che l’accordo sui prigionieri possa avere un impatto significativo sulle future relazioni tra l’Iran e gli Stati Uniti.
Il capo negoziatore di Teheran, Ali Bagheri-Kani, ha dichiarato in un’intervista televisiva che l’Iran è riuscito a liberare i fondi bloccati senza la necessità di riavviare l’accordo nucleare JCPOA. Durante i negoziati sul nucleare, gli Usa avevano sempre sostenuto che i fondi iraniani sarebbero stati rilasciati solo dopo il raggiungimento di un accordo nucleare.
Secondo Bagheri-Kani, l’Iran è riuscito a modellare le condizioni in modo tale che gli Stati Uniti si ritirassero dalle loro posizioni e liberassero i fondi iraniani al di fuori del quadro dell’accordo nucleare.
Di recente, l’Iran e gli Stati Uniti hanno annunciato che 6 miliardi di dollari congelati in Corea del Sud a causa delle sanzioni statunitensi saranno rilasciati attraverso la mediazione del Qatar. Allo stesso tempo, l’Iran ha trasferito cinque ostaggi statunitensi dalla prigione alla detenzione domiciliare. Sebbene l’Iran sostenga che il rilascio dei fondi non sia legato agli ostaggi, è evidente che vengono trattenuti fino a quando i fondi non raggiungono i conti bancari iraniani in Qatar. Attualmente, i fondi sono depositati presso la Banca centrale svizzera, che li convertirà gradualmente in euro e li trasferirà in Qatar.
Bagheri-Kani ha confermato che i colloqui sugli ostaggi si sono svolti parallelamente ai negoziati sul nucleare nel 2021-2022, ma si sono interrotti a causa dell’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022.
L’Iran sta continuando a seguire la questione dei fondi bloccati attraverso intermediari, mentre gli Stati Uniti si stanno opponendo. Nel settembre 2022, Washington ha finalmente accettato di intraprendere misure per sbloccare i fondi al di fuori del quadro dei colloqui sul nucleare, in seguito alla continua pressione da parte dell’Iran.
Dopo che la polizia dell’hijab ha causato la morte di Mahsa Amini, una donna di 22 anni, a metà settembre, sono iniziate proteste antiregime in Iran a livello nazionale.
In seguito a queste proteste, l’amministrazione Biden ha iniziato a esprimere sostegno al popolo iraniano e ai suoi diritti umani. Ma secondo un alto diplomatico iraniano, è stato in quel momento che l’amministrazione americana ha accettato di discutere lo sblocco dei fondi.
All’inizio di ottobre, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha annunciato che non perseguiva più il rilancio dell’accordo nucleare JCPOA.
L’inviato speciale degli Stati Uniti, Rob Malley, ha dichiarato a Parigi il 14 ottobre: “Il nostro focus non è un accordo che non sta andando avanti, ma ciò che sta accadendo in Iran… questo movimento popolare e la brutale repressione del regime contro i manifestanti“. Ha anche menzionato una questione riguardante la vendita di droni armati da parte dell’Iran alla Russia e la liberazione degli ostaggi detenuti.
Due giorni dopo, Malley ha dichiarato alla CNN che al momento i colloqui sul rilancio del JCPOA non erano nell’agenda degli Usa e che l’attenzione si concentrava su ciò che stava accadendo in Iran mentre i colloqui erano in stallo. Ha aggiunto che l’Iran aveva adottato una posizione incoerente con un ritorno all’accordo nei precedenti due mesi. Questo messaggio è stato ribadito anche dal segretario di Stato Blinken e da altri alti funzionari.
I manifestanti iraniani e i loro sostenitori negli Stati Uniti, in Europa e altrove hanno interpretato tali osservazioni come un’indicazione che l’amministrazione Biden aveva rinunciato a trattare con Teheran, mentre le dichiarazioni di Bagheri-Kani suggerivano che dietro le quinte si stavano svolgendo colloqui per il rilascio dei fondi.
Bagheri-Kani ha affermato in un’intervista che le proteste in Iran avevano brevemente “distratto” l’amministrazione Biden, ma che erano rapidamente tornate ai colloqui verso la fine dell’autunno.
I critici vedono l’accordo sugli ostaggi come un passo pericoloso da parte degli Stati Uniti, che potrebbe incoraggiare Teheran a detenere più americani se ne avrà la possibilità, mentre i fondi potrebbero permettere all’Iran di intraprendere azioni anti-occidentali.
Va sottolineato che i resoconti dei media hanno suggerito che l’amministrazione avesse raggiunto un accordo più ampio e non scritto con Teheran, poiché circa tre miliardi di dollari sono stati rilasciati anche dall’Iraq. Presumibilmente, l’Iran avrebbe accettato di rallentare marginalmente il suo arricchimento di uranio in cambio dei fondi e della volontà degli Stati Uniti di non applicare attivamente le sanzioni esistenti.
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