Le aggressioni subite dagli operatori sanitari rappresentano un problema molto grave. Gli ultimi dati riferiti dall’Inail hanno dimostrato nei numeri quanto l’allarme sia ormai ben oltre dall’essere lanciato. Fa ancor più specie – e non si può più girarsi dall’altre parte – sapere che sono le donne e i giovani le categorie più interessate. Le reazioni sono arrivate e, per fortuna, sono di solidarietà, ma ora è il momento di chiederci cosa ci sta davvero capitando come comunità e dove siano finiti valori come il rispetto per i ruoli e le professioni.
Quella del medico è vista spesso come una missione. I professionisti, e bisogna inglobarci anche gli infermieri, chi si occupa di assistenza sociale e chi si occupa di servizi educativi e riabilitativa con i minori, però, non sembrano avere diverse possibilità rispetto all’essere degli eroi. Un’etichetta che rischia di diventare ingombrante. E poi ci sono tutti coloro che si occupano di gestire tossicodipendenti, carcerati e chi lavora in strutture rieducative e riabilitative. Loro non meritano il rispetto e la stima dovuti? Non meritano di poter dire una realtà già di per sé complicata senza che ne abbiano necessariamente le colpe? La questione è già annosa, ma con una certezza: ora dobbiamo noi, come società, sensibilizzare sul problema e, per una volta, correre in aiuto dei nostri medici, prima che sia l’intera categoria a essere ingiustamente squalificata.
I dati Inail scoperchiano il vaso di Pandora sulle aggressioni agli operatori sanitari
La vita ci scorre affianco e, a volte, neppure ce ne rendiamo conto, dando importanza a ciò che non ne ha affatto, dando per scontata la vita che spesso mettiamo in secondo piano. Ancora di più considerando immortali gli altri o mancando di rispetto a chi fa di tutto per aiutarci o per aiutarli. Meno banalmente, fa il suo lavoro al meglio possibile e spesso in condizioni decisamente precarie, ma questo non viene considerato.
Di certo, c’è che i medici italiani – e immaginiamo quelli di tutto il mondo – sono finiti sotto grande pressione durante gli ultimi anni. La pandemia da Covid-19 oltre a nuocere alla socialità e ai pazienti che l’hanno duramente dovuta combattere, ha gravato per la maggior parte su intera categoria, quella degli impeccabili. Dagli operatori sanitari si pretende ciò che c’è di più prezioso e impossibile da gestire: la vita. La si pretende con tutti gli sforzi e con tutte le forze, quasi come fosse una scelta o un obbligo, a quel punto.
E così che anche all’epoca in cui il Coronavirus era primo tra i risultati nei motori di ricerca, c’è chi si è permesso il lusso scomodo di trasformare la rabbia in violenza cieca verso chi era lì a rischiare la vita per salvare altre persone. Lo faceva con le tute tipo astronauta, vestizione, disinfezioni costanti e con il peso sulle spalle che può capire solo chi ha troppi pazienti da sistemare e curare. Tanti da mandare in tilt l’intero sistema nazionale. E per giunta con una malattia ancora non del tutto conosciuto, di certo inedita.
Ora la morsa si è allentata, ma i problemi non si riferiscono al virus, non solo. Quest’incresciosa situazione, infatti, c’è da prima e non è scomparsa con il processo – lento ma costante – di endemizzazione del Covid-19. Gli ultimi dati Inail l’hanno detto senza mezzi termini: sono stati pubblicati in occasione della seconda edizione della Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e socio-sanitari, che è stata fissata appunto al 12 marzo.
Aggressioni, minacce mentali e soprattutto fisiche, purtroppo sono ormai all’ordine del giorno per troppi professionisti del settore e più si va nello specifico, più si capisce come a esserne oggetto sono soprattutto tutti coloro che non rientrano in un certo immaginario collettivo, improntato su codici strani e che probabilmente non conosciamo. E ancor di più le fasce più deboli, quelle che proprio non sarebbero in grado di proteggersi o che semplicemente vengono viste come concettualmente impropri a uno status che si sono meritati duramente. Non è giusto e non si può più ignorare.
Sviscerando i numeri presi in considerazione, nel triennio 2019-2021 gli episodi di violenza sono stati 4.821, per una media di circa 1.600 l’anno. E come se non fosse abbastanza, i bilanci in questione pendono soprattutto su donne e giovani. Lo studio, infatti, evidenzia come a essere interessati siano al 23% i ragazzi che hanno meno di 34 meno e addirittura il 39% per chi ha tra i 35 e i 49 anni. Insomma, basta una semplice addizione e principi di matematica spicciola per capire che quattro giovani operatori sanitari su dieci (per la fascia tra i 35 e i 49 anni) ha subito violenza sul posto di lavoro e magari proprio mentre stava cercando di curare vite umane.
Il problema è ancora più caldo se si sottolinea che addirittura il 71% sono donne. Quasi come se le nostre professioniste non siano più padrone della sicurezza con il camice addosso e debbano sottostare a regole diverse da quelle che già sono imposte da malattie e cura, e sfociano nel controllo della libertà altrui. E poi 71 su 100 è un dato talmente grave che non è possibile non dargli il giusto risalto, non è possibile minimizzarlo e occorre semplicemente considerarlo quello che è: un obbrobrio che pesa ulteriormente su chi vogliamo essere come Stato e come individui, ma soprattutto come civiltà.
Giusti i sit-in, come quelli organizzati negli ultimi due anni a Roma, giusto scendere in piazza in forma di proteste e contro la violenza, come figurava ben scritto in rosso sulle magliette dei professionisti della sanità. Giusto far sapere a tutti che così non va, che il medico è prima di tutto uomo ed essere umano e la scelta di carriera intrapresa non lo rende al di sopra o al di sotto di nessuno. Lo rende semplicemente se stesso, con le sue ambizioni e la voglia sfrenata di aiutare il prossimo, non qualcuno su cui complottare o scaricare la propria frustrazione di impotenza.
Fa ancora più male sapere che la maggior parte delle aggressioni sia avvenuta su giovani infermiere, su assistenti sociali, su chi lavora con i tossicodipendenti, i carcerati, i disabili, gli anziani e i pazienti psichiatrici. Parliamo di tanti giovani, di persone, che mettono in gioco la loro vita per dare sollievo, dare sostegno a chi ha sbagliato, semplicemente si mettono a totale disposizione di chi, senza una mano, non potrebbe avere la sua totale dignità e soddisfare le sue potenzialità di vita, o in alcuni casi sopravvivere. È qui che dovrebbe intervenire lo Stato per essere definito tale, con l’aiuto, l’amore, il rispetto e la cura che gli altri cercano di dare. E se poi, davvero – e nella stragrande maggioranza di casi non è così -, dovesse essere appurato che ci sono stati degli errori grossolani, è comunque la via legale a doverlo appurare, e seguendo il processo di giustizia, non di certo attraverso la violenza cieca e giustizialista. Né può essere giustificata, perché è lì che agisce il senso di tutela di cui le istituzioni dovrebbero essere impregnate e che, invece, dovrebbero esserne impregnate.
Così non va, perché non sono pratiche che possono essere risolte con i fondi del Pnrr, con questo o quel decreto. Non solo almeno. La via deve essere quella del sano, del giusto, dell’aiuto a chi l’aiuto lo dà per scelta. È questo che ci qualifica come civiltà, come città, e ancora di più come individui. No alla violenza, lo scriviamo anche noi senza paura, e tutela per chi opera nel settore della sanità. Una missione, sì, ma anche un atto di fiducia, quella sconosciuta ancora per troppi.
Le aggressioni al personale sanitario stanno provocando episodi di burnout e disaffezione al lavoro
In molti, inoltre, non pensano agli effetti che questi episodi possano avere sugli uomini e le donne, prima ancora che sui professionisti. Sicuramente, tornare a lavoro dopo aver provato la violenza sul proprio corpo, non è facile. Non è semplice affrontare quel senso di paura che si miscela con il proprio richiamo al dovere e alla propria missione, quella che si è identificata come tale. Non è semplice gestire il contraccolpo psicologico che si ha dopo essere stati picchiati in divisa o apostrofati con questo o quell’epiteto.
La triste realtà è che in molti reagiscono male, semplicemente si chiudono in loro stessi, si isolano da quel mondo che speravano non esistesse e pensano che quella non sia la loro strada. Oppure molto più comunemente si distaccano per il proprio bene, per proteggersi in un certo senso. Ne ha parlato in via approfondita ai microfoni di “Quotidiano Sanità” la presidente della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi), Barbara Mangiacavalli e sottolineando chiaramente: “Il vissuto di un infermiere, di un professionista che in qualche modo è aggredito è un vissuto che fa fatica ad essere elaborato. Ci sono studi internazionali che ci parlano di episodi di burnout, stress, disaffezione rispetto al lavoro e alla professione, tanto è vero che in questi anni stiamo registrando moltissimi abbandoni della professione“. La fatica a elaborare un tale stress, che poi è direttamente una delusione verso il prossimo, ricade con un andamento direttamente proporzionale anche sulla vita del sanitario, come se la sua fosse da mettere in secondo piano.
Anche Mangiacavalli non può fare a meno di non enfatizzare il momento difficile che sta vivendo la nostra sanità sotto questo punto di vista: “Molti colleghi, non solo infermieri ma tutte le professioni sanitarie che sono a contatto con l’utenza, non stanno denunciando soprattutto le aggressioni verbali, perché sembra quasi sia diventata una modalità relazionale con cui fare i conti quotidianamente”. Una quotidianità che diventa molto probabilmente una schiavitù, una difficoltà che non è affatto giusto si unisca a quelle che tutti i giorni riguardano medici, infermieri e assistenti sociali.
Inoltre, come vi avevamo accennato in precedenza, la colpa non è solo di chi si abbandona alla violenza e a esercitarla, ma anche della politica, per forza di cose, e dipendente dai contesti sociali in cui si attua: “L’aggressione è l’effetto di una serie di cause anche importanti che affondano le radici in diversi contesti, tra cui i modelli organizzativi e alcune mancate risposte che i cittadini patiscono. I bisogni dei cittadini spesso non vengono convogliati verso i luoghi più adeguati, ad esempio molti accessi al Pronto Soccorso non sono legati a situazioni di criticità vitali – afferma ancora -. Emergono invece bisogni di ascolto, necessità di presa in carico di situazioni complesse, che sfiorano la sfera socioassistenziale. Si aspettano quindi una risposta da un servizio, da una struttura, che spesso non è quella corretta. Occorre quindi investire affinché vi siano servizi territoriali sempre più capillari e conosciuti”.
È inutile nasconderlo ulteriormente, ma a questo punto è necessario che i massimi organismi politici decidano di fare qualcosa e stavolta nella direzione giusta. Bisogna investire e bisogna farlo non solo per assumere il personale che manca, ma anche per mettere i cittadini nelle condizioni di ricevere l’assistenza migliore possibile, soprattutto quella meglio organizzata. E bisogna ancora permettere ai sanitari di erogarla al meglio. E in Italia ora non è affatto scontato.
Con e dopo il Covid, i soldi destinati alla sanità sono aumentati – è vero -, ma ancora non quanto servirebbe per rivoluzionare un sistema che è al minimo indispensabile e spesso ci arriva grazie agli sforzi dei dipendenti stessi. Non è corretto, lo ripetiamo quasi ossessivamente, senza sfidarvi a dire il contrario.
A questo punto, chiudiamo con un dato ancora più allarmante: un’altra rilevazione effettuata da otto università, su tutte Genova, è stata effettuata sugli infermieri che hanno subito violenze fisiche o verbali, ancora una volta. È chiaro che la situazione sia ancora più grave rispetto ai circa 5mila casi denunciati in un anno se ne contano addirittura ventisei volte tanto, e cioè circa 125mila episodi che, in realtà, non sono stati tutti segnalati e registrati. I dati si aggravano anche se si considera la percentuale di donne coinvolte che va al 75%. E il 40% di queste sono violenze fisiche. Infine, addirittura 33% delle vittime di aggressioni ha vissuto o vive evidenti di burnout lavorativi, e il 10,8% presenta danni permanenti a livello fisico o psicologico. C’è da capire, da indagare, ma c’è soprattutto da risolvere, ma la cosa più importante ora è saperlo e fare di tutto affinché non si verifichi più.