Le auto hanno fatto la storia della cronaca nera. Ebbene sì. Loro malgrado, strumenti “innocenti”. L’automobile è un mezzo di trasporto che può essere usato bene o male, per scopi utili o dannosi o perfino criminali. Esattamente come un coltello si usa per mangiare o uccidere; il tritolo può essere utilizzato per scavare miniere o gallerie ma anche per un attentato. I cavalli venivano montati per spostarsi ma anche per fuggire dopo una rapina. Così le auto. Alcune sono entrate nelle cronache indirettamente, per motivi che nulla avevano a che fare con la loro funzione primaria. Questa è una lista di auto che hanno fatto la storia della cronaca nera; in alcuni casi, la storia tout court. L’ordine è cronologico. Le foto, dove possibile, sono quelle dei veicoli effettivamente coinvolti nei fatti riportati; dove non è stato possibile, abbiamo inserito foto generiche, al solo scopo di documentazione.
1914 – GRAF UND STIFT – ATTENTATO DI SARAJEVO
Un veicolo oscuro ai più per uno degli eventi che hanno cambiato la storia dell’umanità. La Graf und Stift fu un’industria automobilistica austriaca fondata nel 1896 e attiva fino al 1971. Alla fine degli anni ’20 cessò la produzione di automobili e cominciò quella di autocarri. Nel 1971 venne rilevata dalla MAN. La Graf resta negli annali della storia per due motivi, uno tecnico e uno incidentale. Quello tecnico risale al 1900, quando i fratelli Graf, fondatori dell’azienda, brevettarono la prima trazione anteriore della storia. Che tuttavia per loro non ebbe seguito.
Il secondo lambisce invece la Storia con la S maiuscola. Infatti fu a bordo di una Graf und Stift Doppelphaeton che il 28 giugno 1914 l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, erede al trono dell’impero austro-ungarico, venne assassinato insieme alla moglie Sofia a Sarajevo, durante una parata, dai colpi di pistola del nazionalista serbo Gavrilo Prinzip. Questo episodio venne usato dall’Austria per dichiarare il 28 luglio guerra alla Serbia, avviando il primo conflitto mondiale. Nella foto si vede proprio la coppia imperiale in quell’auto pochi minuti prima dell’attentato, nel riquadro l’arciduca.
1924 – LANCIA KAPPA – DELITTO MATTEOTTI
Probabilmente nessuno si ricorderebbe di quest’auto, se non fosse stata usata per un delitto le cui conseguenze hanno impresso alla storia d’Italia una svolta che creò le premesse per la sua rovina. La Lancia Kappa fu prodotta dal 1919 al 1922, non lasciò particolari tracce, tranne un esemplare: quello in cui fu assassinato Giacomo Matteotti il 10 giugno 1924. Il delitto Matteotti provocò un caos politico tale da rischiare di portare l’Italia alla soglia della caduta del fascismo dopo soli due anni di potere oppure farla sprofondare in una guerra civile fra bande estremiste di fascisti e socialcomunisti. Vinse Mussolini con enorme fatica, aiutato da re Vittorio Emanuele il quale non agì per rimuovere il duce, poiché l’alternativa della guerra civile era in quel momento molto probabile.
Matteotti fu aggredito a Roma dalla squadra fascista capeggiata da Amerigo Dumini mentre il deputato socialista camminava sul lungotevere Arnaldo da Brescia, a poca distanza dalla Camera. Venne sequestrato e trascinato in una grande berlina Lancia Kappa, passata alla banda dal direttore del Corriere italiano Filippo Filippelli. Mentre Matteotti veniva portato via, la lotta proseguì furiosa in auto e uno dei sequestratori lo accoltellò a morte. Venne seppellito in un bosco fuori città. Il cadavere fu ritrovato due mesi dopo, quando lo scandalo era già nella sua fase più acuta. La foto ritrae proprio la Lancia Kappa usata per il sequestro. Venne individuata perché un portinaio ne aveva annotato la targa, vedendo dei movimenti sospetti, e avvisò la polizia. Filippelli finì in carcere per la vicenda. I sequestratori vennero condannati a pene lievi e successivamente amnistiati. Nella foto piccola, Giacomo Matteotti.
1934 – FORD V8 – BONNIE E CLYDE
Dimenticate il cinema, capace di dipingere come “eroi” i criminali più efferati perché così aumentano gli incassi al botteghino. I veri Bonnie e Clyde non avevano niente a che vedere con Faye Dunaway e Warren Beatty, né con la sconclusionata e frivola pseudo-letteratura che li ha trasformati in una coppietta romantica, come se fossero due adolescenti qualsiasi. Bonnie Parker e Clyde Barrow erano due veri delinquenti che nella loro breve e violenta vita hanno ammazzato, sequestrato e rapinato. Fra il 1932 e il 1934 hanno terrorizzato la zona centro-meridionale degli Stati Uniti, particolarmente Texas, Missouri e Louisiana. Hanno rapinato con la loro banda almeno 12 banche e innumerevoli piccoli negozi e stazioni di servizio, lasciandosi dietro una lunga scia di sangue. Non è chiaro il numero di morti, si contano non meno di nove agenti di polizia e svariati civili. Braccati, Bonnie e Clyde incontrarono la loro fine il 23 maggio 1934 a Bienville Parish, in Louisiana, lungo la State Highway 154. Erano a bordo della loro auto preferita, una Ford V8 del 1932, rubata, accanto alla quale Bonnie Parker si fece fotografare alcune volte mentre fumava un sigaro o imbracciava un mitra. Quelle foto vennero trovate in precedenza dagli agenti in un rifugio della banda e diffuse alla stampa, che ne alimentò il mito.
Quel giorno una squadra di inseguitori (gli americani usano il termine “posse”, mutuato dall’epoca del Far West, indicava i volontari che partivano all’inseguimento dei banditi dopo una rapina) organizzò un agguato proprio in quel punto. Infatti la polizia ricevette una soffiata, secondo cui i due criminali sarebbero passati quel giorno, per incontrare un altro membro della banda, Henry Methvin, la cui famiglia viveva in zona. Alle 9.15 la coppia passò nel punto dell’agguato. La polizia obbligò il padre di Methvin a fermarsi in quel punto, per indurre Barrow a fermarsi. Non appena Clyde rallentò, gli agenti aprirono il fuoco e freddarono i due criminali, crivellandoli di proiettili. Il rapporto del medico legale parlò di 17 differenti ferite sul corpo di Barrow e di 26 su quello della Parker. Le foto qui sopra ritraggono la Ford ancora sul luogo dell’agguato, piena di fori dei proiettili, oltre a Bonnie e Clyde in una delle fotografie ritrovate nel loro rifugio in Louisiana.
1942 – MERCEDES 320 B – OPERAZIONE ANTHROPOID
In mezzo all’orrore delle decine di milioni di morti provocati dalla seconda guerra mondiale, questo episodio è certamente marginale e sconosciuto ai più, anche perché riguarda principalmente solo la vecchia Cecoslovacchia. Tuttavia coinvolge un personaggio eccellente, un pezzo grosso della Germania nazista, uno dei principali collaboratori di Heinrich Himmler, il capo delle famigerate SS. L’operazione Anthropoid è l’attentato compiuto il 27 maggio 1942 a Praga da un commando della resistenza cecoslovacca nei confronti di Reinhard Heydrich. Per capire chi fosse Heydrich bastano i due soprannomi più celebri: il “boia di Praga”, oppure “il macellaio”. Nel momento dell’attentato era governatore di Boemia e Moravia, praticamente un viceré, il dittatore della Cecoslovacchia. In precedenza fu direttore della Gestapo; uno dei principali dirigenti delle SS, fu uno dei maggiori organizzatori della “Soluzione finale”, cioè lo sterminio di massa degli ebrei. Data la sua importanza, circolava su una delle auto di maggior lusso dell’epoca, una Mercedes 320 B cabriolet (ne possedeva più di un esemplare). Potremmo paragonarla ad una Classe S di oggi. Heydrich era un temerario: Adolf Hitler, sempre gentile, dopo la morte del gerarca lo definì stupido, perché si esponeva troppo; infatti viaggiava appositamente su una vettura scoperta per affermare la propria fiducia nel regime spietato che lui stesso aveva imposto in Cecoslovacchia. Ma questa provocazione fornì anche una ghiotta occasione alla resistenza. Da qui l’operazione Anthropoid per eliminarlo, in collaborazione con i servizi segreti britannici.
Quel 27 maggio 1942, Heydrich percorreva l’ordinario tragitto dalla residenza all’ufficio. Il commando lo attendeva in un punto dove una curva secca obbligava l’auto a rallentare. Al momento del transito venne dato il segnale. L’uomo col mitragliatore fallì l’assalto, perché l’arma s’inceppò. Heydrich si accorse di quanto stava accadendo, allora scese dall’auto, pistola alla mano. Un secondo membro del commando quindi lanciò una bomba a mano sotto l’auto, che nell’esplosione venne danneggiata, ma non troppo. L’autista fu ferito leggermente, mentre Heydrich venne colpito in modo serio. Ma al momento non sembrava che le sue ferite fossero letali. Il boia di Praga invece morì in ospedale il 4 giugno a causa di un’infezione. La Mercedes della foto è proprio quella colpita dalla bomba a mano, in alto una foto d’archivio di Reinhard Heydrich.
1963 – LINCOLN CONTINENTAL – ASSASSINIO DI JOHN KENNEDY
Uno degli episodi più controversi della storia americana, perché tanti dubbi sono sorti sull’esistenza di complotti o eventuali mandanti, mai veramente chiariti. Cominciamo dal veicolo. La Lincoln Continental ha sempre rappresentato il lusso al massimo livello; al punto che ha sempre disputato alla Cadillac l’onore di fornire l’auto ufficiale per il presidente degli Stati Uniti. Durante l’amministrazione di John Fitzgerald Kennedy, durata dal 1961 al 1963, la First Car era appunto una Lincoln Continental decappottabile. Una limousine lunghissima, che a capote abbassata era totalmente scoperta. Il 22 novembre 1963 Kennedy era in visita a Dallas. La parata doveva rinforzare l’immagine presidenziale e del partito. Nonostante le preoccupazioni del Secret Service, fu lo stesso Kennedy a pretendere la capote abbassata, perché voleva la massima esposizione. Alle 12.30, nel momento in cui l’auto aveva svoltato in Elm Street, ci furono tre spari. Un cecchino, arrestato mentre cercava di fuggire e identificato come Lee Harvey Oswald, aveva sparato con un fucile da una finestra al secondo piano di un magazzino laterale.
Subito dopo gli spari, due agenti si arrampicarono sull’auto e diedero ordine all’autista di accelerare verso l’ospedale. Alle 13.00 Kennedy fu dichiarato morto. La notizia ufficiale venne diffusa mezz’ora più tardi. Pochi minuti dopo il vicepresidente Lyndon Johnson prestò giuramento ed entrò in carica come presidente. Oswald venne a sua volta assassinato due giorni dopo, mentre veniva trasportato in carcere, da Jack Ruby, il gestore di un night club. La foto grande ritrae Kennedy durante la parata pochi minuti prima dell’attentato. Si riconoscono la moglie Jackie e il governatore del Texas John Connally, anch’egli colpito gravemente da una delle pallottole sparate da Oswald. La foto in bianco e nero è di pochi secondi successiva agli spari, un agente balza sul cofano mentre l’auto accelera. Si riconosce sulla sinistra Jackie china sul corpo del marito.
1967 – FIAT 1100 D – BANDA CAVALLERO
La famigerata banda Cavallero agì fra Torino e Milano negli anni Sessanta, compì numerose rapine, particolarmente a banche, era fortemente politicizzata, estremista di sinistra. Il capo era Pietro Cavallero. Gli altri componenti si chiamavano Danilo Crepaldi (morto nel 1966 in un incidente aereo), Donato Lopez, Adriano Rovoletto e Sante Notarnicola. Le forze dell’ordine ebbero parecchi problemi nel fermare questa banda. Il 25 settembre 1967 ci fu l’epilogo sanguinoso. I quattro rapinarono il Banco di Napoli a Milano, la sede in zona Fiera, tra largo Zandonai e via Panzini. Alle 15.30 tre dei banditi (Rovoletto, l’autista, era in macchina) fecero irruzione nella banca, armi in pugno, e in pochi minuti raccolsero un ampio bottino di 12 milioni di lire; raggiunsero in auto Rovoletto, la vettura era una Fiat 1100 D nera, e fuggirono. Ma vennero subito intercettati da una Volante, poiché un impiegato della banca era riuscito a dare l’allarme. Alla prima auto pattuglia ne seguirono altre. Ne scaturì un furioso inseguimento, di quelli da cinema.
Ma qui non c’erano Maurizio Merli, Gian Maria Volonté o Tomas Milian e le scene d’azione non erano preparate dagli stuntmen. Soprattutto, i proiettili erano veri. I criminali non esitarono a sparare sui passanti, per rallentare la Polizia. In meno di mezz’ora tre persone vennero uccise dai proiettili sparati a caso dai banditi. Un quarto uomo morì d’infarto qualche ora dopo, perché si era scontrato con Rovoletto, il quale stava fuggendo a piedi. Oltre ai quattro morti il bilancio fu di venti feriti. La 1100 dei banditi si schiantò contro un muro, ma loro riuscirono a scappare. Tuttavia Rovoletto venne catturato subito; da qui gli investigatori identificarono gli altri membri e in meno di una settimana finirono tutti in galera; gli ultimi due furono Cavallero e Notarnicola, il 3 ottobre, circondati da 500 carabinieri in un casello ferroviario abbandonato a Valenza Po. Al processo, Lopez, minorenne all’epoca, fu condannato a 12 anni; gli altri tre all’ergastolo. L’ergastolo in Italia è relativo: nessuno di loro è morto in carcere. Notarnicola è ancora vivo, libero, gestisce un’osteria a Bologna. La Fiat 1100 della foto è generica. Nel riquadro in alto si vedono, da sinistra, Cavallero, Notarnicola e Rovoletto.
1977 – FIAT 132 – STRAGE DI DALMINE
6 febbraio 1977, ore 10. La centrale operativa della Polizia dirama una comunicazione su una Fiat 132 che procede ad alta velocità a zig zag nell’autostrada A4 in direzione Bergamo, in prossimità dello svincolo di Dalmine. Due agenti della Stradale, il brigadiere Luigi D’Andrea (31 anni) e la guardia Renato Barborini (27), in servizio di pattuglia e in quel momento al casello di Dalmine, partono per intercettare quell’auto; più avanti, allo svincolo, un’altra pattuglia appostata. D’Andrea e Barborini incrociano la 132 con tre uomini sospetti a bordo e intimano l’alt, pronti all’eventuale inseguimento. Invece i sospettati si fermano poco più avanti ad un centinaio di metri dalla seconda pattuglia. I due agenti procedono con cautela, D’Andrea imbracciando il mitra. Ma i tre sospettati sono veri banditi: la banda di Renato Vallanzasca. I tre delinquenti sono decisi a sparare e lo fanno a bruciapelo. D’Andrea e Barborini sono colpiti a morte. La seconda pattuglia fa in tempo ad avvicinarsi e a sua volta apre il fuoco, uccidendo uno dei banditi e ferendo lo stesso Vallanzasca. Ma i due superstiti riescono a fuggire. Più avanti faranno perdere le proprie tracce bloccando una famiglia e rapinandola della loro Fiat 128. Il 15 febbraio dello stesso anno Vallanzasca verrà rintracciato a Roma e arrestato. Nella foto, accanto ad una Fiat 132 generica, si vede il monumento eretto alla memoria di D’Andrea e Barborini, poi in alto Renato Vallanzasca al momento dell’arresto e in basso i due poliziotti assassinati. Nonostante i quattro ergastoli e le diverse evasioni, a Vallanzasca è stata concessa più volte la semilibertà, revocata nel 2014 perché sorpreso a rubare un paio di mutandine in un negozio.
1978 – RENAULT 4 – RITROVAMENTO DI ALDO MORO
Il sequestro di Aldo Moro con la strage degli agenti di scorta e il successivo omicidio del politico democristiano furono il momento più buio degli anni di piombo, rappresentarono il culmine del terrorismo di estrema sinistra, della sfida che le Brigate rosse lanciarono allo Stato. Il 16 marzo 1978 era in programma il voto di fiducia alla Camera sul governo Andreotti, al quale si supponeva avrebbe dato il suo appoggio esterno anche il PCI. Moro, che in quel momento era il presidente della Democrazia Cristiana, fu uno dei fautori di quel “compromesso storico” col leader comunista Enrico Berlinguer, per affrontare un periodo così difficile per la sopravvivenza democratica dello Stato.
Quel mattino l’ex presidente del Consiglio uscì di casa per recarsi prima a messa e poi alla Camera. Viaggiava su una Fiat 130, insieme a due dei cinque agenti che formavano la sua scorta: i carabinieri Domenico Ricci, appuntato e autista, il maresciallo Oreste Leonardi; a poca distanza seguiva un’Alfetta con tre poliziotti: i vicebrigadieri Raffaele Jozzino e Francesco Zizzi e la guardia Giulio Rivera. Nessuna delle due auto era blindata. Al transito in via Fani, l’agguato delle Brigate rosse: una Fiat 128 bianca taglia la strada alla 130, un colpo di pistola uccide l’autista e una mitragliata il maresciallo. Altri due terroristi, travestiti da avieri e appostati in una siepe, mitra in pugno fulminano i tre poliziotti. Moro viene catturato e portato via.
Il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia, sui quali si è detto e scritto di tutto, il cadavere di Aldo Moro venne fatto ritrovare in via Caetani (a circa uguale distanza dalle sedi della DC di piazza del Gesù e del PCI di via Botteghe oscure), nel bagagliaio di una Renault 4 rossa. Il Governo ritrovò fermezza, dopo tante esitazioni, e rifiutò di cedere al ricatto dei brigatisti, che chiedevano la liberazione di numerosi e pericolosi altri terroristi. La foto non ha bisogno di spiegazioni.
1982 – AUTOBIANCHI A112 – DELITTO GENERALE DALLA CHIESA
Il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa negli anni Settanta ottenne importanti successi prima contro la mafia e poi contro il terrorismo; fu uno dei maggiori artefici della sconfitta delle Brigate rosse. Nel 1982 la Sicilia divenne particolarmente insanguinata dagli omicidi mafiosi. Il Governo, presieduto da Giovanni Spadolini, non sapeva che pesci pigliare. Allora nominò Dalla Chiesa prefetto di Palermo e gli promise massicci interventi in poteri, uomini e mezzi per combattere quella che somigliava sempre più ad una guerra. Ma rimasero solo promesse. Ciò nonostante, il lavoro di Dalla Chiesa portò ad un minuzioso dossier consegnato alla Procura di Palermo, dove si ricostruivano le varie indagini e i nomi con le strutture delle famiglie mafiose. Non è del tutto chiaro, ancora oggi, se fu proprio quel materiale a provocare la feroce reazione delle cosche. Oppure la mafia volle affermare platealmente la propria superiorità sullo Stato. Una sorta di sfida politica.
Sta di fatto che Il 3 settembre 1982, di sera, Dalla Chiesa uscì dalla Prefettura a bordo di un’Autobianchi A112 bianca, seguito da un’Alfetta su cui viaggiava un solo agente, Domenico Russo. Sulla 112 insieme al generale si trovava la moglie Emanuela Setti Carraro, al volante. Alle 21.15, in via Isidoro Carini, l’agguato. Una moto affiancò l’Alfetta e Russo venne colpito da una raffica di Kalashnikov. Una BMW affiancò la 112 e i mafiosi, sempre col mitra AK-47, investirono di proiettili Dalla Chiesa e la Setti Carraro, uccisi da 30 pallottole. Il generale e la moglie morirono subito, l’agente Russo dodici giorni dopo.
Le polemiche e l’indignazione popolare contro il Governo furono violentissime. Ai funerali di Stato ci furono pesanti contestazioni della folla contro i politici, addirittura con lanci di monetine. Solo il presidente della Repubblica Sandro Pertini fu risparmiato dalle contestazioni. Successivamente, nel corso dello storico maxiprocesso alla mafia, furono condannati all’ergastolo come mandanti dell’omicidio Dalla Chiesa diversi fra i più importanti boss, fra i quali Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco e Pippo Calò. La foto riprende la 112 subito dopo l’omicidio, si vedono i corpi di Dalla Chiesa e di sua moglie. In basso a sinistra l’agente Domenico Russo.
1987-1992 – FIAT UNO – LA BANDA DELLA UNO BIANCA
Una delle bande criminali più feroci degli ultimi decenni. Venne chiamata la banda della Uno bianca, perché usava di preferenza una Fiat Uno di colore bianco, un’auto che passava facilmente inosservata data la sua enorme diffusione; per lo stesso motivo era molto semplice trovarne una da rubare; ma quando serviva, venivano utilizzate anche altre auto. Nel periodo dal 1987 al 1992 compì ben 105 azioni criminali, uccidendo 24 persone e ferendone altre 102. La banda operò prevalentemente in Emilia Romagna.
Ciò che rende ancora più inquietante la vicenda è che diversi dei suoi membri erano agenti in servizio della Polizia di Stato e si servivano della propria posizione strategica per facilitare le azioni delittuose. La banda era composta da sei membri: i fondatori erano i fratelli Roberto, Fabio e Alberto Savi; poi c’erano Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli. Tutti poliziotti tranne Fabio Savi.
Le attività criminali della banda spaziavano dalle rapine alle estorsioni. Non esitavano a sparare: altri poliziotti, carabinieri, guardie giurate, passanti, persone negli esercizi commerciali che rapinavano. Alcuni degli omicidi non erano nemmeno legati alle rapine ma avevano solo uno sfondo razzista: extracomunitari e nomadi rientrano nell’elenco delle vittime.
Per diversi anni le indagini non portarono ad alcun risultato. L’episodio più cruento fu la strage del Pilastro, il 4 gennaio 1991 a Bologna, al villaggio del Pilastro. La banda uccise un’intera pattuglia di Carabinieri che li stavano fermando per un controllo. Solo durante il processo, in mezzo a tanti altri capi d’imputazione, gli assassini confessarono quella strage; prima di allora non si riuscì a venirne a capo.
Nel 1994 ci fu la svolta. Due investigatori della Questura di Rimini, l’ispettore Baglioni e il sovrintendente Costanza, spinsero a fondo le indagini e un giorno individuarono Fabio Savi. Da lì a poco tutti i membri della banda furono arrestati. I processi si conclusero nel 1996. I tre fratelli Savi vennero condannati a tre ergastoli ciascuno. Ergastolo anche per Occhipinti; 18 anni a Gugliotta e 3 anni e 8 mesi, patteggiando, a Valicelli. La foto è di una Fiat Uno generica. Nel riquadro in alto Fabio Savi, in basso Roberto Savi, entrambi ripresi al momento dell’arresto.
1992 – FIAT CROMA – STRAGE DI CAPACI
Un altro fra i troppi momenti bui della nostra Repubblica fu il biennio 1992-93, quello delle bombe della mafia, in cui i boss intrapresero azioni con modalità e gravità proprie delle strategie terroristiche. Uno degli episodi più cruenti e forse quello che ebbe il maggiore impatto dal punto di vista politico fu la strage di Capaci. Il bersaglio di Cosa Nostra era il procuratore Giovanni Falcone, il principale magistrato del pool antimafia. Fu lui a coordinare le indagini che condussero al maxiprocesso di Palermo, al termine del quale vennero condannati 460 imputati appartenenti alla mafia, fra cui tutti i principali boss. Le pene definitive furono di 19 ergastoli e un totale di oltre duemila anni di detenzione. La sentenza finale della Cassazione arrivò il 30 gennaio 1992.
La cupola quindi preparò la rappresaglia e ordinò l’assassinio di Falcone. Questo venne eseguito il 23 maggio 1992, lungo l’autostrada A29 Palermo-Mazara del Vallo, nei pressi dello svincolo di Capaci. Il momento scelto per l’attentato non rispondeva solo ad esigenze tattiche ma anche politiche: infatti in quei giorni era in corso a Roma l’elezione del presidente della Repubblica che avrebbe dovuto sostituire Francesco Cossiga e che si stava trascinando bizantinamente da diversi giorni.
Poiché Falcone girava con un’auto blindata, fu deciso l’uso degli esplosivi pesanti. In un cunicolo sotto la sede stradale vennero collocati 13 bidoni contenenti complessivamente 572 Kg di miscela esplosiva. Il detonatore venne azionato a distanza tramite un radiocomando. Quel giorno Falcone proveniva dall’aeroporto di Punta Raisi. La scorta lo andò a prelevare e il magistrato salì su una Fiat Croma blindata, bianca, volle guidare lui; l’autista Giuseppe Costanza si mise sui sedili posteriori, mentre al fianco di Falcone si sedette la moglie Francesca Morvillo. Il corteo si apriva con un’altra Croma, beige, in cui viaggiavano gli agenti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo; in mezzo l’auto del giudice; a chiudere un’altra Fiat Croma, azzurra, su cui viaggiavano gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo e Gaspare Cervello. Erano blindate anche le altre due auto.
Alle 17.58 venne attivato il detonatore. L’ora dell’esplosione è stata accertata dall’orologio della signora Morvillo, le cui lancette erano bloccate a quell’ora. La deflagrazione fu così violenta che venne registrata perfino dai sismografi. L’onda d’urto colpì in pieno la Croma degli agenti di testa, che venne catapultata ad oltre cento metri di distanza. Uccisi i tre poliziotti. L’auto di Falcone aveva rallentato poco prima: l’autista sopravvisse e dichiarò che il giudice, dovendo dare a lui le chiavi per il giorno successivo, invece di prenderle dal cassetto sfilò distrattamente quelle dal quadro. Ciò fece perdere velocità alla vettura, quindi non venne colpita in pieno.
Ma fu ugualmente investita dalla massa di detriti sollevati dall’esplosione. La violenza dell’impatto con terra e cemento ebbe lo stesso effetto di un incidente frontale. Falcone e la moglie sopravvissero per un po’, ma morirono durante il trasporto in ospedale. La terza Croma venne investita marginalmente dall’esplosione. Gli agenti riportarono solo alcune contusioni.
La strage scosse anche i politici romani dal loro torpore, perché si affrettarono (relativamente) e dopo “soli” due giorni decisero di eleggere Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale.
Le indagini degli anni successivi confermarono come esecutori e mandanti tutti i pezzi grossi delle famiglie mafiose principali, buona parte dei quali già condannati al maxiprocesso, fra cui Riina, Provenzano, Bagarella e parecchi altri. Nella foto si vede la Croma bianca su cui viaggiava Falcone. Nella foto d’apertura, accanto alla Croma azzurra che chiudeva la scorta, si vede una Lancia Thema: non faceva parte del corteo, era un’auto che si trovava a passare in quel punto in quel momento ed è rimasta coinvolta nell’esplosione.
1992 – FIAT 126 – STRAGE DI VIA D’AMELIO
Il culmine di quell’estate maledetta del 1992 fu a luglio ed ebbe l’effetto di far somigliare una strada di Palermo ad un quartiere di Beirut. Il 19 luglio, quasi due mesi dopo la strage di Capaci, una Fiat 126 imbottita di 90 Kg di esplosivo fu fatta saltare in aria in via Mariano D’Amelio, al civico 21; in quel condominio viveva la madre del bersaglio, il giudice Paolo Borsellino, che si era recato a visitarla.
Borsellino fu uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Falcone ai tempi del pool antimafia. Di conseguenza la sua attività contribuì alle condanne ai mafiosi nel maxiprocesso di Palermo. Questo significò anche per Borsellino, come per Falcone, la condanna a morte.
Nel pieno marasma politico e istituzionale in cui si trovò lo Stato dopo l’assassinio di Falcone, la mafia usò metodi sempre più pesanti. Questa volta non si fece scrupoli nemmeno nel far esplodere un’autobomba nel mezzo di un quartiere abitato. L’attentato venne eseguito alle 16.58. Borsellino era accompagnato da sei agenti di scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina e Antonino Vullo. Sopravvisse solo Vullo, autista di una delle due auto della scorta, perché al momento dell’esplosione stava parcheggiando. La blindatura lo protesse parzialmente dall’onda d’urto, ma riportò comunque ferite gravi. Gli altri invece erano già scesi dalle auto insieme al giudice e morirono tutti immediatamente.
L’esplosione fu violentissima e proiettò detriti in tutta la via. Causò il ferimento di altre 24 persone e aprì un grosso squarcio nel palazzo dove stava per entrare Borsellino. I processi portarono alle stesse conclusioni e agli stessi responsabili dell’omicidio di Falcone. La foto mostra la scena di via D’Amelio dopo l’esplosione. Ovviamente la 126 è d’archivio.
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