L’esistenza della mafia, in particolare della ‘ndragheta, nel Nord Italia, e in particolare a Milano, è ormai un dato di fatto difficilmente contestabile. Eppure soltanto qualche anno fa erano in molti a rivendicare il primato morale, oltre che legale, del settentrione sul meridione, ostinandosi a sostenere che la mafia fosse un cancro esclusivo del mezzogiorno. Le inchieste della Magistratura hanno però dimostrato che, proprio come un cancro, la criminalità organizzata ha esteso le sue metastasi a tutta la penisola. Oggi arriva anche la conferma che le imprese settentrionali sono (ed erano) cellule disposte a essere attaccate da quel male.
«Tutti gli imprenditori lombardi entrati in relazione con la cosca della ‘ndrangheta radicata in Brianza hanno perfetta conoscenza della natura non solo illegale, ma anche mafiosa dell’attività del presunto boss Giuseppe Pensabene e cercano di trarre il maggior profitto dal rapporto illecito che instaurano, contenti di trovare una compiacente sponda ai propri disegni di egemonia economica».
Lo mette nero su bianco il Giudice per la Indagini Preliminari di Milano Simone Luerti, togliendo di fatto ogni dubbio su quale sia il ruolo e la consapevolezza degli imprenditori settentrionali che fanno affari con i clan, permettendo alla ‘ndragheta di espandersi dalla Calabria e di radicarsi nel territorio e nel tessuto sociale, un tempo ancora sano, del Nord Italia.
«Il dato nuovo e preoccupante – continua il GIP Luerti nell’ordinanza di custodia cautelare a carico di 40 persone, che ha portato alla luce l’esistenza a Seveso, in Brianza, di una vera e propria banca clandestina gestita dai clan e capace di controllare flussi di denaro degni di un grande istituto quotato in Borsa – è rappresentato dal fatto che i fenomeni di compenetrazione tra mafia e impresa, storicamente confinati nelle ben note aree geografiche dell’Italia meridionale, non solo si sono estesi in Lombardia e al nord in genere» (e questo è un dato risalente nel tempo), ma soprattutto «vivono grazie a un intenso e disinvolto connubio tra forme evolute di associazioni mafiose e imprenditori calabresi e lombardi, pronti a fare affari illegali insieme come se niente fosse».
Insomma gli imprenditori del Nord, non solo non sono vittime della prepotenza e dalla violenza dei clan provenienti dal meridione, ma non sono nemmeno ignari di quale sia la natura (criminale) delle persone con cui fanno affari e quindi l’origine (illecita) dei fondi di cui costoro dispongono.
Se prima, quindi, si poteva ritenere che gli imprenditori del Nord, fino all’altro giorno ritenuti onesti o comunque non inquadrati in associazioni criminali, subissero un danno dalle metastasi ‘ndranghetiste nel settentrione o fossero costretti – anche tramite l’uso della violenza di cui la criminalità organizzata fa largo uso – a scendere a compromessi, ora bisogna reinterpretare il rapporto tra imprenditoria lombarda e malavita calabrese.
L’omertà, che proprio quegli imprenditori hanno evidenziato nel corso degli anni, dimostrandosi reticenti nel denunciare le infiltrazioni mafiose di cui erano apparentemente testimoni (poi si scoprirà protagonisti) era infatti giustificata con la paura delle ritorsioni che i malavitosi potessero mettere in atto. Oggi, invece, risulta più convincente l’ipotesi che la reticenza nella denuncia derivi proprio dalla mancanza di interesse che l’associazione criminale venga scoperta e quindi interrotti i rapporti esistenti con essa.
A tal proposito il capo della Squadra Mobile di Milano, Alessandro Giuliano, durante la conferenza stampa in seguto all’operazione “Tibet” ha addirittura commentato: «Se l’organizzazione ‘ndranghetista è riuscita ad arricchirsi e diventare così potente è stato anche per colpa della collusione di imprenditori e di altre figure che non c’entrano nulla col mondo criminale».
E quindi, se nel frattempo in Emilia-Romagna si scopre che quegli stessi imprenditori continuano i loro traffici illeciti di rifiuti tossici anche senza l’aiuto della camorra, il rischio è che un giorno i metodi criminali possano continuare a esistere a prescinde dall’esistenza stessa della criminalità.
Nel comportamento colluso e accondiscendente degli imprenditori settentrionali con le organizzazioni criminali si deve, però, rinvenire, oltre ad una ricerca del profitto a qualsiasi costo (compreso quello di fare accordi con la mafia), anche la necessità di far fronte ad una grave crisi economica che sta portando troppe aziende al fallimento, soprattutto in virtù di una pressione fiscale che non sempre tiene conto della mutata situazione economica.
Si può pertanto ritenere che molti imprenditori, costretti fra la mancanza di introiti da un lato e i continui prelievi fiscali dall’altro, si siano trovati di fronte alla scelta se chiudere la propria attività, con tutti gli oneri che ciò comporta (dal dover licenziare i lavoratori al restare loro stessi senza una fonte di guadagno) o se accettare le allettanti, seppur illecite, proposte dei malavitosi.
Significativo è in tal senso la scoperta che la ‘ndrangheta abbia aperto una vera e propria banca nel cuore della zona industriale lombarda, la Brianza. Banca che, traendo i proprio fondi da attività illecite come il traffico internazionale di stupefacenti o di armi, poteva permettersi di soddisfare le richieste di finanziamento a cui le banche “legali” oggi non possono più far fronte. A tal proposito non si può non tenere in considerazione che i banchieri della ‘ndrangheta adottassero sicuramente metodi più risolutivi, anche se più violenti, nei confronti dei creditori insolventi rispetto a quelli delle banche legali.
Resta, però, il dato di fatto che quel ruolo che le criminalità organizzate hanno assunto in meridione, sostituendosi ad uno Stato assente, ad esempio offrendo alternative lavorative altrimenti inesistenti, ora lo stanno assumendo anche nel Nord Italia. Ma soprattutto ciò dimostra come, di fronte ad una situazione di indigenza, sia facile per tutti, a prescindere dall’essere meridionali o settentrionali, napoletani o milanesi, disporsi all’illegalità.
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