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Le poesie più belle del ‘900: versi d’amore (e non solo) da Montale a Neruda

Quali sono le poesie più belle del ‘900? Tra le migliaia di versi che hanno fatto la storia della letteratura mondiale, molti appartengono al patrimonio letterario italiano: Montale, Saba, Ungaretti e D’Annunzio sono solo alcuni dei grandi cantori che hanno reso immortali le poesie del ‘900, traducendo in versi sentimenti, emozioni e stati d’animo, grazie al potere evocativo di questo genere letterario. La storia della letteratura del ‘900 comprende centinaia di poesie e non è per nulla semplice fare una scelta ma – lungi dal voler proporre una classifica – abbiamo selezionato alcuni componimenti, le poesie più belle del ‘900, tra versi d’amore, poesie sul Natale e inni che celebrano l’amicizia. Eccole qui di seguito, continuate a leggere.

La nostra selezione di poesie più belle del ‘900 inizia con un componimento che, più che d’amore, è una sorta di inno alla solitudine umana. Malinconico e struggente, è opera di uno degli intellettuali italiani più importanti del secolo scorso, Pier Paolo Pasolini:

Senza di te tornavo, Pier Paolo Pasolini

Senza di te tornavo, come ebbro,
non più capace d’esser solo, a sera
quando le stanche nuvole dileguano
nel buio incerto.
Mille volte son stato così solo
dacché son vivo, e mille uguali sere
m’hanno oscurato agli occhi l’erba, i monti
le campagne, le nuvole.
Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio
della fatale sera. Ed ora, ebbro,
torno senza di te, e al mio fianco
c’è solo l’ombra.
E mi sarai lontano mille volte,
e poi, per sempre. Io non so frenare
quest’angoscia che monta dentro al seno;
essere solo.

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E’ uno degli autori contemporanei più amati in assoluto, Nazim Hikmet, il più importante poeta turco del Novecento, famoso per gli splendidi versi dedicati all’amore. Tra le poesie più belle del ‘900 vale la pena inserire anche Amo in te, scritta mentre si trovava in prigione in Anatolia, quando il governo turco lo condannò a causa delle sue posizioni politiche. I versi, dedicati alla donna che amava, parlano ovviamente d’amore, un amore avventuroso e quasi impossibile, descritto come fosse una caccia appassionante:

Amo in te, Nazim Hikmet

Amo in te
l’avventura della nave che va verso il polo
amo in te
l’audacia dei giocatori delle grandi scoperte
amo in te le cose lontane
amo in te l’impossibile
entro nei tuoi occhi come in un bosco
pieno di sole
e sudato affamato infuriato
ho la passione del cacciatore
per mordere nella tua carne.

Fernando Pessoa è considerato, insieme a Neruda, uno dei poeti più rappresentativi del XX secolo, sicuramente uno dei maggiori di lingua portoghese. Le sue poesie d’amore, senz’altro tra le più belle del ‘900, rappresentano al meglio la sua visione poetica improntata su temi filosofici come la verità e l’identità – celebri i suoi eteronimi, personalità poetiche completamente inventate (nei quali si ‘sdoppiava’) che avevano, però, una produzione poetica del tutto autonoma:

L’amore quando si rivela, Fernando Pessoa

L’amore, quando si rivela,
non si sa rivelare.
Sa bene guardare lei,
ma non le sa parlare.

Chi vuol dire quel che sente
non sa quel che deve dire.
Parla: sembra mentire…
tace: sembra dimenticare…

Ah, ma se lei indovinasse,
se potesse udire lo sguardo,
e se uno sguardo le bastasse
per sapere che stanno amandola!

Ma chi sente molto, tace;
chi vuol dire quello che sente
resta senz’anima né parola,
resta solo, completamente!

Ma se questo potesse raccontarle
quel che non oso raccontarle,
non dovrò più parlarle,
perché le sto parlando…

Tra le poesie più belle del ‘900, soprattutto quelle dedicate all’amore, non possiamo non includere Se tu mi dimentichi, scritta dal grande Pablo Neruda e che, sebbene piuttosto lunga, vale la pena riportare per intero:

Se tu mi dimentichi, Pablo Neruda

Voglio che tu sappia
una cosa.

Tu sai com’è questo:
se guardo
la luna di cristallo, il ramo rosso
del lento autunno alla mia finestra,
se tocco
vicino al fuoco
l’impalpabile cenere
o il rugoso corpo della legna,
tutto mi conduce a te,
come se tutto ciò che esiste,
aromi, luce, metalli,
fossero piccole navi che vanno
verso le tue isole che m’attendono.

Orbene,
se a poco a poco cessi di amarmi
cesserò d’amarti poco a poco.

Se d’improvviso
mi dimentichi
non cercarmi,
ché già ti avrò dimenticata.

Se consideri lungo e pazzo
il vento di bandiere
che passa per la mia vita
e ti decidi
a lasciarmi sulla riva
del cuore in cui affondo le radici,
pensa
che in quel giorno,
in quell’ora,
leverò in alto le braccia
e le mie radici usciranno
a cercare altra terra.

Ma
se ogni giorno,
ogni ora
senti che a me sei destinata
con dolcezza implacabile.
Se ogni giorno sale
alle tue labbra un fiore a cercarmi,
ahi, amore mio, ahi mia,
in me tutto quel fuoco si ripete,
in me nulla si spegne né si oblia,
il mio amore si nutre del tuo amore, amata,
e finché tu vivrai starà tra le tue braccia
senza uscir dalle mie.

Questa, invece, è una delle poesie più belle di Federico García Lorca, uno struggente lamento funebre per l’amico torero Ignacio Sánchez Mejías, morto nel 1935 durante una corrida:

Alle cinque della sera. Lamento per Ignacio Sánchez Mejías, Federico García Lorca

Alle cinque della sera.
Eran le cinque in punto della sera.
Un bambino portò il lenzuolo bianco
alle cinque della sera.
Una sporta di calce già pronta
alle cinque della sera.
Il resto era morte e solo morte
alle cinque della sera.

Il vento portò via i cotoni
alle cinque della sera.
E l’ossido seminò cristallo e nichel
alle cinque della sera.
Già combatton la colomba e il leopardo
alle cinque della sera.
E una coscia con un corno desolato
alle cinque della sera.
Cominciarono i suoni di bordone
alle cinque della sera.
Le campane d’arsenico e il fumo
alle cinque della sera.

Negli angoli gruppi di silenzio
alle cinque della sera.
Solo il toro ha il cuore in alto!
alle cinque della sera.
Quando venne il sudore di neve
alle cinque della sera,
quando l’arena si coperse di iodio
alle cinque della sera,
la morte pose le uova nella ferita
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Alle cinque in punto della sera.

Una bara con ruote è il letto
alle cinque della sera.
Ossa e flauti suonano nelle sue orecchie
alle cinque della sera.
Il toro già mugghiava dalla fronte
alle cinque della sera.
La stanza s’iridava d’agonia
alle cinque della sera.
Da lontano già viene la cancrena
alle cinque della sera.
Tromba di giglio per i verdi inguini
alle cinque della sera.
Le ferite bruciavan come soli
alle cinque della sera.
E la folla rompeva le finestre
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Ah, che terribili cinque della sera!
Eran le cinque a tutti gli orologi!
Eran le cinque in ombra della sera!

Molte delle poesie più belle del ‘900 hanno come tema le festività natalizie: Natale, di Giuseppe Ungaretti, è una di queste:

Natale, Giuseppe Ungaretti

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare.

E ancora I pastori, di Gabriele D’Annunzio (di cui riportiamo il celebre incipit), uno struggente ricordo della sua terra, l’Abruzzo, e dei pastori che, con la transumanza, conducevano le greggi dalla montagna verso il mare:

I pastori, Gabriele D’Annunzio

Settembre. Andiamo è tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzo i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare,
vanno verso l’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti alpestri
ché sapor d’acqua natia
rimanga nei cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.

Anche La capra, di Umberto Saba – in cui il poeta descrive, associandola all’animale, la sofferenza dell’essere umano – può essere definita come una delle poesie più belle del ‘900:

La capra, Umberto Saba

Ho parlato a una capra
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
alla pioggia, belava.

Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.

In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

Mentre Sul muro, di Bertold Brecht, rappresenta una netta presa di posizione contro la guerra, definita come la negazione totale dell’umanità:

Sul muro, Bertold Brecht

Sul muro c’era scritto col gesso
viva la guerra.
Chi l’ha scritto
è già caduto.
chi sta in alto dice:
si va verso la gloria.
Chi sta in basso dice:
si va verso la fossa.
La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente egualmente.
Al momento di marciare molti non sanno
che alla loro testa marcia il nemico.
La voce che li comanda
è la voce del loro nemico.
E chi parla del nemico
è lui stesso il nemico.

Concludiamo la nostra carrellata di alcune tra le poesie più belle del ‘900 con i versi di Tamir Sorek, poeta e professore all’Università della Florida, che spiegano, attraverso la metafora dei colori, la vera essenza della vita, una vita brillante, senza dolore e, soprattutto, all’insegna della pace:

Ho dipinto la pace, Tamir Sorek

Avevo una scatola di colori
brillanti, decisi, vivi.
Avevo una scatola di colori,
alcuni caldi, altri molto freddi.
Non avevo il rosso
per il sangue dei feriti.
Non avevo il nero
per il pianto degli orfani.
Non avevo il bianco
per le mani e il volto dei morti.
Non avevo il giallo
per la sabbia ardente,
ma avevo l’arancio
per la gioia della vita,
e il verde per i germogli e i nidi,
e il celeste dei chiari cieli splendenti,
e il rosa per i sogni e il riposo.
Mi sono seduta e ho dipinto la pace.

Caterina Padula

Giornalista pubblicista, appassionata di scrittura, mi occupo da anni di approfondimenti culturali e di informazione online. Da sempre lettrice accanita e curiosa, amo la musica, l'arte e tutto ciò che è natura.

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