Secondo alcune indiscrezioni del Sole 24 ore, dopo trentasei anni di onorata carriera alla guida dell’Udinese, Gianpaolo Pozzo, potrebbe vendere parte del pacchetto azionario della società friulana e del Watford a un gruppo finanziario newyorkese. La squadra, quindi, diventerebbe in parte statunitense, come è già capitato a tante altre, Roma e Atalanta in testa, prima di loro.
Ma perché tutto questo interesse degli Stati Uniti per il calcio italiano? Le motivazioni sono banalmente due, e poco c’entrano con un nuovo innamoramento degli imprenditori a stelle e strisce per il mondo del pallone, piuttosto hanno a che vedere con i diritti media, e non solo televisivi, e con la possibilità di costruire infrastrutture e stadi di proprietà, che potrebbero anche tornare utili qualora l’Italia riuscisse a spuntarla per l’organizzazione degli Europei del 2032. Dopo tutto: ci vuole tempo.
In un mondo sempre più globalizzato e iperconnesso, quello che era lo sport per antonomasia del Vecchio Continente e di parte dell’America, quella meridionale, quindi il calcio, sta diventando un settore su cui in tanti vogliono puntare. Il Qatar non ne è che l’esempio più lampante. Con una Nazionale che avrebbe faticato – molto più dell’Italia – a qualificarsi a qualsiasi torneo, anche quello della parrocchia, il Paese arabo si è conquistato il diritto di organizzare i Mondiali del 2022, che inizieranno a brevissimo.
Tralasciando il fatto che i motivi di questo interesse degli emiri verso il mondo del pallone hanno poco a che vedere con il mondo del pallone come quello che tiene incollati milioni di tifosi ogni domenica a schermi televisivi, o direttamente a rettangoli verdi, ma ha più a che fare con un tentativo di ripulirsi l’immagine pubblica attraverso, appunto, lo sport (lo sportwashing, per intenderci), ci sono tante altre motivazioni che possono spingere investitori e imprenditori a puntare sul calcio. Anche quello italiano.
Uno dei primi a interessarsi, senza ombra di dubbio, è stato Roman Abramovich, russo ma con passaporto israeliano, portoghese e persino lituano, con le mani dentro aziende di petrolio e derivati, che nel 2003 ha acquistato il Chelsea, portandola a vincere tantissimi trofei, tra cui due Champions League. Nel 2022, a causa del conflitto in Ucraina voluto e architettato dal presidente Vladimir Putin, ha dovuto abbandonare i Blues dopo quasi vent’anni di successi. Poi ci sono stati il Manchester City, il Paris Saint-Germain, anche la decaduta Newcastle a finire nel mirino di imprenditori stranieri.
Arrivando in Italia, seppur non meta di magnati mediorientali – anche se lo stesso fondo di investimenti che ha acquistato i Magpies aveva messo gli occhi sull’Inter, i sauditi di Pif -, la situazione non cambia di tanto. In principio fu la Roma che, nel febbraio del 2011, dopo l’addio della famiglia Sensi, venne comprata da una cordata di statunitensi guidata da Thomas Di Benedetto. L’esperienza dell’imprenditore americano durò effettivamente poco, il tempo giusto affinché un altro uomo a stelle e strisce si interessasse della questione giallorossa: James Pallotta. Anche la sua era, benché più duratura, è finita e, dal 2020, a guidare la squadra della Capitale ci sono i Friedkin, Dan e Ryan, presidente e figlio.
Poi è stato il turno dell’Inter, in mano ai cinesi, quello del Milan, statunitense, della Fiorentina, di proprietà di un italo americano, del Como, del Bologna, dello Spezia, della Pistoiese, del Palermo e di chi più ne ha più ne metta. Fino ad arrivare all’Udinese (e al Watford), che avrebbero una storia molto simile a quella dell’Atalanta, ancora con Antonio Percassi come presidente ma con il 55% delle quote in mano a un fondo di investimento straniero, statunitense per la precisione e manco a dirlo.
Secondo quanto rivelato dal Sole 24 ore, infatti, la trattativa della famiglia Pozzo, con il presidente Gianpaolo che guida i friulani dal 1986, ma portata avanti dal figlio Gino, porterebbe a un riassetto finanziario in cui dovrebbero entrare 890 Fifth Avenue Partners Llc, un gruppo finanziario newyorkese, che a maggio ha stretto una collaborazione con la Spac, sempre statunitense.
Come dicevamo prima, gli imprenditori stranieri non si sono svegliati dall’oggi al domani e hanno deciso di buttare, pardon investire i loro soldi in società di calcio italiane per il solo gusto di sedersi in tribuna d’onore a vedere partite più o meno interessanti. Chiaro che no.
Ci sono diverse ipotesi sul tavolo, alcune sono ottimiste, altre semplicemente sono realiste. Iniziamo dalle prime, reputandole più o meno credibili, ammettiamolo. Ecco, i club italiani, specialmente quelli di Serie A, offrono molte possibilità di guadagno tra stadi, diritti televisivi, sponsor e mercato. Se, però, questi dati si confrontano con i numeri dei club inglesi, la partita è così impietosa che, sì, è un’ipotesi che fa acqua da tutte le parti.
Secondo il Report Calcio Figc 2021, a fronte dei 3,5 miliardi di entrate, infatti, ci sono 5,3 miliardi di debiti da considerare: i diritti tv sono sempre più al ribasso, molto spesso è difficilissimo costruire stadi – ne sa qualcosa soprattutto Pallotta a Roma, ma potrebbe non essere la stessa cosa per Friedkin, o per entrambe le sponde del Naviglio -, gli sponsor fuggono, e il mercato potrebbe essere addirittura bloccato in cambio di un aiuto da parte del governo per la rateizzazione dei versamenti fiscali che valgono quasi 500 milioni di euro.
Quindi no, ancora. A spingere i fondi di investimento e gli imprenditori sono i diritti media, ben più ampi dei diritti televisivi, e la possibilità di entrare in partita, stavolta per davvero, sul piano infrastrutturale. Con la candidatura dell’Italia per gli Europei del 2032, al vaglio della Lega c’è un dossier sugli stadi che potrebbe essere molto appetitoso per chi punta a costruirne di nuovi, con annesse bellissime città mercato, e tanti turisti da portare a vedere le meraviglie del nostro Paese. Magari non il derby di Roma di domenica, ma non è che una rondine che non fa primavera.
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