Le notizie che arrivano dai carceri italiani, molto spesso, sono storie di sconfitte. Sono storie di percorsi di rieducazione e reinserimento sociale interrotti. Come la notizia, di qualche giorno fa, di un detenuto che, a soli 21 anni, ha trasformato il lenzuolo in una cappio e si è impiccato nel carcere di Pisa. E se un detenuto decide di prendere carta e penna per scrivere a qualcuno che non sia un familiare, solitamente, è per denunciare una situazione di malfunzionamento del carcere o, ancora peggio, di abuso. Quella che, invece, ha voluto scrivermi Giuseppe Campo racconta, una volta tanto, tutta un’altra storia.
Avevo conosciuto Giuseppe, seppur telefonicamente, un paio di anni fa, quando – affidato ai servizi sociali – aveva anch’egli dovuto affrontare non pochi problemi e, tramite un collaboratore di giustizia, come lui, aveva avuto il mio numero. Per chiedermi cosa? Forse nulla, eppure lo avevo ascoltato.
Non l’ho più risentito per diverso tempo, anche perché Giuseppe Campo era tornato in carcere e non poteva più mettersi facilmente in contatto con me. Qualche giorno fa, però, mi ha ricontattato per chiedermi se potevo pubblicare una sua lettera. «E’ per una cosa bella», egli stesso ha tenuto a precisare.
L’ho letta e ho deciso di pubblicarla, perché ho trovato interessante soprattutto la sua voglia di ringraziare coloro che, a fatica, garantiscono quello che dovrebbe essere un diritto costituzionale: la rieducazione e il reinserimento sociale del detenuto. Ma proprio questa sua voglia di ringraziare dimostra come in Italia non sia sempre così…buona lettura!
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