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Lezioni sulla felicità: cosa insegna davvero il corso più seguito di Yale

Tra un reportage sulla crisi siriana e un commento sugli ultimi scandali che vedono protagonista il presidente, le maggiori testate americane hanno riportato una notizia curiosa: il corso più seguito dell’intera storia di Yale insegna come essere felici.
Fondata nel 1701, Yale è la terza più antica università degli Stati Uniti e senza dubbio una delle più prestigiose, vi hanno studiato George W. Bush, Hilary Clinton e più di 15 premi Nobel. Eppure, negli oltre 300 anni di vita di questa istituzione conosciuta in tutto il mondo, mai nessun corso aveva riscosso così tanto successo come Psychology and the Good Life, ideato dalla professoressa Laurie Santos con il chiaro obiettivo di fornire agli studenti le chiavi della felicità. A meno di una settimana dall’apertura, le iscrizioni hanno raggiunto quota 1200, un successo senza precedenti considerando che, in media, i corsi più seguiti contano circa 500-600 brillanti menti americane.
La notizia ha fatto presto il giro del mondo, riportata anche in Italia come l’ennesima stravaganza di un Paese che fa spesso parlare di sé sulle testate nazionali per la sua eccentricità e i suoi capricci da leader mondiale. Quando ho saputo che questo successo strepitoso ha portato gli americani, nella loro consueta megalomania, a mettere online e a disposizione del mondo intero il corso di Laurie Santos, non ho saputo resistere e mi sono iscritta, entrando nel novero di quel migliaio di persone alla ricerca della felicità. Curiosi di sapere cosa ho scoperto?

Psychology and the Good Life

Psychology and the Good life nasce per soddisfare un bisogno degli studenti: secondo un report stilato dal Yale College Council, almeno la metà degli universitari si è rivolta al programma di Mental Health per richiedere un supporto psicologico durante gli studi. Il corso di Laurie Santos sembra muovere da questa esigenza e, nella lettera di benvenuto rivolta agli iscritti, la professoressa accenna alla promessa di una vita felice e appagante.
Incuriosita da premesse così ottimistiche, inizio a seguire le lezioni, con la speranza che entrare nella sua schiera di adepti mi renda felice come non mai. Il tutto in sole 6 settimane, senza particolari obblighi di studio e senza dover sostenere esami: ecco l’attraente proposta americana.

La felicità è quantificabile

Il corso di Laurie Santos si apre con una richiesta bizzarra: misurare il nostro grado di felicità. Per fare queste misurazioni arriva in mio soccorso l’Authentic Happiness Inventory, un test per mettere la propria felicità su una bilancia e assegnarle un punteggio preciso.
Come tutti gli studenti anche io mi sottopongo al test, in questo modo avrò la prova tangibile che, a fine del corso, sarò effettivamente più appagata. Oggi come oggi serve una garanzia, no? Mi sembra di sentire quel tedioso soddisfatti o rimborsati che ci propinano tutti gli slogan pubblicitari.
Se le letture sono opzionali e il corso non prevede esami finali, c’è però un compito richiesto agli studenti: dopo le giornate trascorse nel campus di Yale, i ragazzi sono invitati a scrivere in un diario 5 cose per cui si sono sentiti grati. Su questo punto il mio scetticismo viene meno, numerosi studi, tra cui quelli del Dr. Robert A. Emmons della University of California, e del Dr. Michael E. McCullough confermano che esprimere la propria gratitudine abbia un incredibile impatto sulle nostre vite. E se un diario può sembrare un po’ vintage per un Paese che vanta numerosi primati in campo tecnologico, sappiate che presto sarà disponibile l’app ReWi (poteva mai mancare?) che aiuterà tutti gli iscritti al corso a tener traccia della propria ricerca della felicità.

I soldi (da soli) non fanno la felicità

Tra i primi insegnamenti di Yale c’è questa verità lapalissiana. Nessuno, nemmeno un multimiliardario potrebbe dirsi felice se malato di un male incurabile o privo di famiglia e relazioni. Che i soldi, da soli, non facciano la felicità è un’ovvietà che non deve certo esser dimostrata a Yale. Eppure il primo punto del corso Psychology and the Good Life è proprio quello di far capire agli studenti che si ingannano nel credere che un lavoro migliore o uno stipendio più alto possa renderli felici. Nonostante sembri banale, è vero che uno dei primi motivi di insoddisfazione e depressione nelle generazioni più giovani, riguarda il lavoro, la sua mancanza o la sua precarietà.
Seguendo il corso di Yale scopro un dato interessante e spesso sottovalutato: ad un aumento di stipendio non consegue necessariamente un aumento di felicità, e questa correlazione è applicabile solo ai Paesi in via di sviluppo dove un maggior guadagno permette accesso a beni e servizi primari, come acqua pulita e cure mediche.
I premi Nobel Danny Kahneman e Angus Deaton, economisti e psicologi, han studiato nello specifico questa correlazione e han dimostrato che la felicità ha un tetto massimo di 75.000 dollari (circa 60.000 euro). Insomma, i soldi non fanno la felicità, ma solo se si ha uno stipendio da laureato a Yale.

Tutto è relativo, anche l’amore

Che dire poi dell’amore? Chi non crede che il lavoro sia la chiave per la felicità avrà riposto le sue speranze nell’anima gemella. Il risultato? Solo i primi due anni di matrimonio ci fanno avere la sensazione di essere più felici, oltre questa scadenza non c’è differenza tra la felicità di una coppia sposata e quella di molti spiriti liberi.
La teoria del miswanting creata da Tim Wilson e Dan Gilbert è un tassello fondamentale nel corso più frequentato di Yale. Quando individuiamo nel lavoro, nello stipendio, nell’amore le chiavi per una vita perfetta, non facciamo altro che ingannare noi stessi. Laurie Santos mostra ai futuri premi Nobel alcune illusioni ottiche che ingannano la vista a seconda di ciò che circonda l’immagine, cercando di spiegare come il contesto alteri la nostra visione. Una sorta di relativismo annacquato e semplificato. Niente esiste in termini assoluti ma solo all’interno di un dato scenario, che inevitabilmente condiziona la nostra percezione e il nostro stato d’animo. Il continuo confronto tra la nostra vita, il nostro lavoro, le nostre relazioni e la vita altrui ci porta a sentirci costantemente insoddisfatti.

Essere connessi, ma nel modo giusto

Oggi più che mai internet, televisione e social network offrono i punti di riferimento su cui calibriamo i nostri desideri e le nostre aspettative. Se gli studi dimostrano che la correlazione tra denaro e felicità non vale poi molto, una correlazione molto più salda è quella tra l’uso di Facebook e i livelli di autostima e, come c’è da aspettarsi, la correlazione è negativa: più usi Facebook e meno autostima hai.
La nostra mente non sembra esser in grado di filtrare spontaneamente dei validi termini di paragone; entra tutto in nostro contatto, tutto quello che ci circonda ha un effetto su di noi, più di quanto siamo disposti ad ammettere.
Le connessioni che ci possono effettivamente dare serenità sono quelle tra noi e chi ci circonda, sono i rapporti veri e la capacità di essere immersi nel momento che si vive. Il problema più grande al giorno d’oggi, e ciò che probabilmente spinge tante giovani menti di Yale ad iscriversi ad un corso sulla felicità, è che viviamo in modo superficiale, passando da un lavoro ad un altro, da una attività all’altra, velocemente, per ottimizzare le nostre giornate ed essere più produttivi. Capita a tutti di far colazione pensando agli impegni della giornata, di sentirsi inseriti in un costante flusso di pensieri, informazioni e attività che ci impediscono di vivere il presente, anche quando si tratta di una semplice colazione o di una doccia serale. A Yale, invece, si insegna il savoring, l’atto di godersi il momento e di esser davvero concentrati su quello che si fa.
Questa è una delle chiavi del successo: sentirsi produttivi sul lavoro, sentirsi stimolati, vivere in modo profondo anche i piccoli momenti quotidiani senza lasciarsi distrarre dal feed dei social e senza estraniarsi dal mondo reale.

Perché dovremmo copiare gli americani

Giunta alla sesta e ultima settimana, non mi resta che chiedermi se davvero questo corso così seguito abbia motivo di esistere. Gli insegnamenti che fornisce sono semplici ma non trascurabili. Esortare le persone a ripensare ai propri obiettivi e alle proprie aspettative, a sentirsi grati per la vita di ogni giorno, che dovrebbe essere più reale e meno virtuale, più stimolante e meno passiva; esortare i ragazzi ad avere un occhio critico anche quando usano i social, a fermarsi e valutare quanto impatto abbiano quelle immagini massificate e preconfezionate sulle loro vite.
Dietro alla scelta e alla curiosità di molti studenti c’è un desiderio che tutti condividiamo, quello di essere più felici; eppure essere soddisfatti di se stessi e della propria vita richiede impegno e forse non tutti, al termine del corso, saranno in grado di assumerselo.
Da una delle università più famose del mondo ci aspettavamo idee più geniali? Forse. Ma illuderci che il corso più seguito della storia di Yale derivi la sua fama dal fatto che apra le porte alla felicità è da ingenui e utopisti. Il valore di questo corso risiede solo ed esclusivamente nell’aver aperto un dibattito e aver stimolato la riflessione. Riportare il caso di Yale come han fatto numerose testate nazionali e internazionali, lo rende una mera curiosità, da leggere sorridendo della stravaganza degli americani. Dovremmo invece fermarci e pensare criticamente al modo in cui viviamo le nostre relazioni, alla nostra presenza online, alle aspettative che ci costruiamo e a quanto oggi la depressione giovanile sia una piaga sociale troppo spesso sottovalutata.
Forse possiamo rinunciare ad avere un Ministero della felicità, come avviene negli Emirati Arabi (noi di ministri ne abbiamo fin troppi), ma se un corso sulla felicità può aprire un dialogo nelle scuole e nelle famiglie, allora vale la pena apparire un po’ stravaganti.

Photo by Rawpixel.com/Shutterstock.com

Elena Chioda

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