La confisca dei beni ai mafiosi e alle associazioni criminali è un tassello fondamentale nella lotta alla mafia. È dal potere economico che i clan traggono la loro forza, sono i soldi e il controllo del territorio a proteggere i criminali, colpendo il cuore della società. Una volta confiscati, questi beni possono tornare a rifiorire, a dare nuovo respiro ai luoghi piagati dalla criminalità. Al Sud, in particolare, questo passaggio è sempre più importante, soprattutto ora che si stanno diffondendo le agromafie (LEGGI QUI L’INTERVISTA A GIANCARLO CASELLI). Liberare la terra dalle mafie, ridarla alla società civile in nome della legalità è ciò che porta nuova linfa vitale a terre che hanno solo voglia di rinascere. Per conoscere la realtà attuale del riutilizzo delle terre e dei beni confiscati, abbiamo intervistato Valentina Fiore, amministratore delegato del Consorzio Libera Terra Mediterraneo.
Qual è la filosofia alla base delle vostre produzioni e della gestione dei terreni?
La realtà di Libera Terra, nata nel 2001, oggi racchiude 10 cooperative sociali che gestiscono terreni agricoli confiscati in 4 regioni del Sud Italia: Puglia, Calabria, Sicilia e Campania. Il progetto nasce su input dell’associazione Libera che ha voluto dimostrare in maniera concreta quale sia la valenza della legge sul riutilizzo sociale dei beni confiscati. Oggi è facile immaginare che immobili o altri beni possano essere utilizzati da associazioni o cooperative sociali, ce ne sono centinaia in tutta Italia, ma più di 10 anni fa era una realtà difficile da immaginare.
I beni confiscati sono assegnati in comodato d’uso gratuito alle cooperative. Questo significa che le cooperative non diventano proprietarie, ma possono utilizzarlo per un determinato periodo di tempo. L’obiettivo sfidante che vogliamo darci è quello di essere soggetti promotori di uno sviluppo nuovo per il territorio, guardando al bene confiscato come punto di partenza e all’impresa come strumento.
Parlare di agricoltura e di agroalimentare, per noi significa valorizzare le tipicità locali, sia in termini di biodiversità che di trasformazioni tipiche enogastronomiche.
L’idea è che il bene confiscato possa diventare anche motore di conoscenza e valorizzazione delle tradizioni culturali di un territorio.
Questo significa lavorare sui prodotti autoctoni. La massima espressione è rappresentata dai vini, ma c’è grande attenzione anche su altre colture, dal grano al pomodoro, dai carciofi ai legumi. Puntiamo a riscoprire alcune colture dimenticate o varietà colturali tipiche di ognuno dei nostri territori.
Tutte le coltivazioni sono biologiche: l’idea di sviluppo e valorizzazione del territorio si allarga anche al tema del rispetto della terra, oltre che delle tradizioni e della biodiversità. Il nostro modello sta dando già delle risposte concrete e sta diventando un punto di riferimento.
Ci stiamo concentrando sulla qualità delle nostre produzioni, perché vogliamo attivare uno scambio equo anche con il consumatore e lavoriamo costantemente per migliorare la qualità di tutti i nostri prodotti. Crediamo fortemente che per raggiungere le nostre finalità di interesse collettivo, dobbiamo concentrarci nell’essere dei bravi imprenditori e guadagnarci a pieno titolo un posto nel mercato grazie alla validità della nostra offerta.
Quando prendete in mano questi terreni, solitamente in che condizioni sono?
C’è di tutto. Troviamo terreni coltivati fino a poco prima, più o meno legalmente o abbandonati da tanto tempo. Nel primo caso il recupero è abbastanza veloce. Negli altri occorre moltissimo lavoro e spesso si arriva anche ad espiantare eventuali impianti precedenti perché oramai non più produttivi. Una delle nostre cooperative in questo momento, l’ultima nata, in provincia di Trapani, sta per procedere a un’attività di espianto importante su un vecchio uliveto abbandonato.
Immagino che chi coltivava quei terreni prima di voi lo facesse in modo molto diverso dal vostro. Quali sono le conseguenze nella produzione?
C’era una grandissima diversità di approccio, in molti casi, con il passaggio dalla vecchia gestione alla nostra. C’è anche da dire che il bene era fondamentalmente strumento di gestione del consenso e del potere e quindi non sempre veniva usato per la produzione, quanto per altre motivazioni.
A livello tecnico, la differenza a oggi è enorme. Per esempio alcune delle viti in buono stato che abbiamo ricevuto erano allevate con tecniche volte più all’ottenimento di grandi quantità che di qualità. Un approccio totalmente opposto al nostro.
Ci è però sembrata comunque una sfida importante tentare di coltivarle a modo nostro per ottenerne produzioni di qualità. E’ il caso per esempio di un vigneto di tendone che abbiamo iniziato a gestire in modo sperimentale per ottenere il massimo della qualità possibile. Oggi uno dei nostri cru proviene proprio da quel tendone ed è uno dei vini che ha ricevuto grandissimi riconoscimenti .
Mi permetto un piccolo paragone. So che spesso, quando le imprese vengono sequestrate alla criminalità organizzata e date in gestione a società legali, arrivano in tempi rapidi al fallimento, proprio perché perdono il “quoziente di illegalità” che gli permetteva di guadagnare. Succede anche nell’agricoltura?
Questo succede più che altro nel caso delle aziende. Le società vivono spesso in condizioni non di mercato. Il nostro è un caso leggermente diverso, perché noi gestiamo terreni e trasformiamo i prodotti della terra in prodotti ben riconoscibili con un marchio.
Più attenzione per la qualità dei prodotti rispetto alla produzione precedente, vuol dire anche più attenzione sul terreno coltivato (il famoso “nutrire il pianeta”) e sulla salute dei consumatori (“energia per la vita”)?
Il tema della qualità e del cambio di gestione si vede sicuramente nei vigneti perché in questo caso c’è un intervento forte dell’uomo. Ma lo stesso avviene anche nelle altre colture. Puntando al biologico e alla qualità, abbiamo anche attivato una serie di studi e di ricerche per la gestione delle diverse colture per esempio sperimentando tecniche diverse per la gestione delle infestanti o per le varietà più adatte.
Rispetto della terra che nella gestione precedente era un po’ meno…
Non c’era. Abbiamo portato avanti una conversione al biologico più attenta alla terra stessa, alla natura, all’ambiente e anche alle modalità con cui si fa agricoltura. Il tutto cercando anche di studiare tecniche innovative.
Per quanto riguarda le conseguenze positive sulla salute dei consumatori?
Tutte le nostre produzioni, anche quelle trasformate, cercano di avere sempre al centro il prodotto della terra, con pochi ingredienti aggiuntivi e una manipolazione che sia il minimo indispensabile. Per noi è il modo migliore di offrire un prodotto che sia coerente con tutto quello che stiamo facendo: il rispetto della terra, dei territori e delle tradizioni, delle storie culturali e delle persone. C’è sempre stata una sorta di convinzione errata sul fatto che le produzioni biologiche facessero bene alla salute. In realtà fanno bene al territorio e al pianeta e indirettamente fanno bene anche alle persone.
Quali sono i vostri canali di vendita?
In Italia siamo ormai presenti in tutti i canali: grande distribuzione, specializzato, commercio equo, ristorazione collettiva, horeca, estero e ora anche un canale di vendita diretta online.
Come fanno i consumatori a identificarvi?
I nostri prodotti sono tutti distinti dal marchio Libera Terra. C’è un nostro sito, www.bottegaliberaterra.it, dove ci sono tutte le produzioni presenti e quindi è possibile vedere tutto l’assortimento. In particolare è significativo il lavoro all’estero. Oggi noi siamo presenti in più di 10 Paesi in Europa: stiamo crescendo ogni anno e questo ci incoraggia. È un ulteriore modo di rappresentare il made in Italy nel mondo. Oltre all’elemento della qualità, della valorizzazione delle specificità locali, c’è anche un elemento di legame con il territorio.
Sarete presenti in Expo?
Saremo presenti all’interno del supermercato del futuro di Coop, con cui c’è una collaborazione più che decennale. Saremo visibili anche nelle attività che il Governo italiano ha predisposto in questi mesi come testimonianza del made in Italy di qualità.