Salvi grazie a un chiodo. Filippo Calcagno, nel suo primo giorno di libertà a casa, a Piazza Armerina, parla con i giornalisti che lo stanno aspettando davanti casa. Ha perso 40 chili in quasi otto mesi da prigioniero in Libia, ma soprattutto ha perso due compagni, Salvatore Failla e Fausto Piano, rapiti con lui e con Gino Pollicardo, tornato a casa a Monterosso, nelle Cinque Terre. Calcagno racconta ai cronisti come si sono liberati lui e Pollicardo, come hanno trovato la forza di resistere alle violenze e alle angherie; racconta anche della speranza che avevano tutti e 4 di ritornare a casa e, con la voce rotta dall’emozione, ricorda i due colleghi che non ce l’hanno fatta.
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“Pensavamo che saremmo tornati a casa. Soprattutto Salvatore. Aveva fiducia, ‘forza che ce la facciamo’, diceva”. Il tecnico di Piazza Armerina ha saputo della morte degli altri due colleghi solo al rientro in Italia.
Fino al 1° di marzo erano stati sempre insieme, in 4, chiusi in quella casa di Sabratha, a sopportare le percosse, le privazioni, le violenze. Quel giorno sapevano che qualcosa stava per succedere. Il giorno prima i rapitori avevano detto che “era tutto finito”. “Ci avevano portato delle tute da mettere per quando tutto fosse finito, poi ci hanno diviso e hanno portato via Salvatore e Fausto”, spiega.
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Non sa se hanno scelto a caso o se c’era una volontà precisa e non sa nulla di un eventuale riscatto. Sa solo che lui e Gino Pollicardo hanno approfittato di quell’occasione per tornare liberi. Tutto grazie a un chiodo. “Non sapevo cosa potevo fare con un chiodo”, ricorda. “Ho lavorato molto sulla porta, giorno per giorno, sulla zona dove la serratura si incastra nella porta. Era di legno duro, ma con caparbietà sono riuscito a indebolirla”. Da due giorni erano da soli in quella casa. Così Pollicardo ha provato a dare una spallata alla porta, dopo averci tentato senza successo, anche il giorno prima: il chiodo aveva fatto il suo dovere e la porta ha ceduto.
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“Quando si è aperta, l’altro dubbio era di trovare chiusa dall’esterno la porta che dava fuori, invece era aperta e fuori non c’era più nessuno”, continua. Una volta fuori, si sono camuffati per paura di essere notati da altri “criminali”, hanno trovato la Polizia e sono arrivati in Commissariato. Dopo un’ora, lui stesso è tornato in quella casa per mostrarla alle forze dell’Ordine. Il resto è storia nota.
Meno nota è quello che è successo in quasi 8 mesi di sequestro. I 4 colleghi hanno parlato a lungo tra loro, per mantenere la speranza viva e la mente lucida, per non farsi sopraffare dallo sconforto. “Abbiamo contato i giorni e siamo stati bravi. Non abbiamo pensato al 29 febbraio, per questo sul bigliettino avevamo scritto il 5 marzo anche se era il 4”, spiega ancora Calcagno.
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Non sa se i loro rapitori fossero legati all’Isis: per lui rimangono dei criminali. “C’erano donne e anche un bambino”, ricorda. “Abbiamo sofferto la fame, la sete, i pugni e i colpi di fucile, costretti a fare i bisogni dentro una cosa di plastica”. Fino alla fine sono rimasti insieme: il destino ha voluto che si salvassero solo loro due.
“Non è il momento di festeggiare perché abbiamo perso due colleghi. Questa storia sarà finita solo quando anche i nostri compagni saranno tornati“, gli fa eco da Monterosso Gino Pollicardo. “Il mio pensiero va alle loro famiglie: non posso immaginare il dolore che provano”, è la sua amara conclusione.
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