L’intelligenza artificiale sta cambiando davvero il mondo della musica? Certo che sì, come dimostra l’ultimo singolo (fake) di Drake feat The Weeknd. Il problema è questo: non lo sta facendo forse nel modo giusto. Ecco perché.
C’è chi sostiene che l’AI stia ammazzando la musica: è davvero così? Questa è una domanda parecchio complessa, che però merita una risposta. Ecco una riflessione al riguardo.
Cosa farà l’intelligenza artificiale al mondo della musica? In questo momento chiederselo sembra lecito più che mai. Sì, proprio ora che è nato Heart On My Sleeve, scritto e composto da Drake e The Weeknd – e liberamente ispirato a Selena Gomez, la cantante attrice celebre (anche) per il suo amore tormentato con Justin Bibier che però ha avuto una storia anche con entrambi gli artisti – divenuto immediatamente un successo unico (basti pensare che su TikTok ha più di 8,5 milioni di visualizzazioni, mentre su Spotify è stata riprodotta circa 254mila volte), che però ha una particolarità rarissima. Nessuno dei suoi “genitori” sa che esiste. E no, non è questo il caso di “figlio tenuto nascosto all’altro”: nessuno dei due ha fatto un torto all’altro, né tantomeno ha estorto rime e melodie di nascosto al suo amico/collega. Il merito – oppure la colpa, che dir si voglia – di tutto è solo ed esclusivamente dell’intelligenza artificiale.
Ebbene sì: tutto è partito da un profilo Instagram chiamato @ghostwriter (non a caso), da cui questa canzone all’improvviso è nata. Come ha fatto il suo creatore a copiare pedissequamente le voci di Drake e The Weeknd, al punto da far credere a tutti che fossero davvero loro gli artefici di tutto (anche se un orecchio più attento ha capito subito che ci fosse qualcosa che non andava, considerando la demo di bassa qualità e la sovrapposizione delle voci a volte non giustificata)? Semplicemente ha usato un software addestrato sulle voci dei musicisti. Sì, l’intelligenza artificiale fa anche questo e assicura: “Questo è solo l’inizio”.
C’è da dire che questo non è affatto un unicum: esistono già diversi siti web su cui è possibile creare letteralmente nuovi brani usando delle voci quanto più possibile simili a quelle delle popstar. Un esempio? Lo stesso David Guetta – dj di fama internazionale, che quindi non ha alcun motivo per ricorrere all’intelligenza artificiale, considerando che verosimilmente non avrà problemi a contattare qualche suo collega super famoso per un feat – ha ammesso di aver usato un sito, chiamato uberduck.ai, che gli ha permesso di ricreare la voce di Eminem e aggiungerla a uno dei suoi pezzi strumentali.
Ma non solo, perché di recente sono comparse sul web finte tracce con i “deepfake” di Rihanna e Kanye West, che hanno cantato rispettivamente Cuff It di Beyoncé e Hey There, Delilah, dei Plain White T’s.
Qui però si apre un problema (Drake lo ha già capito): quanto la possibilità di utilizzare l’intelligenza artificiale per creare musica sia utile davvero e quanto invece non farà altro che ammazzare letteralmente la creatività?
Lo stesso David Guetta, che, come abbiamo anticipato, ne ha abbondantemente usufruito, ha parlato dell’intelligenza artificiale in questi termini: “Sono sicuro che il futuro della musica è nell’intelligenza artificiale”, ma questo deve essere solo uno “strumento” (al pari della drum machine e del campionatore) perché “niente sostituirà il gusto” e “ciò che definisce un artista è che ha un certo gusto, un certo tipo di emozione che vuole esprimere e userà tutti gli strumenti moderni per farlo”.
Possiamo attingere dalle sue parole per arrivare immediatamente al focus del discorso: come potrà uno strumento artificiale prendere il posto dell’essere umano nell’arte? Questo già di per sé cozza con il concetto stesso di arte, che altro non è che, come ci suggerisce la Treccani “la capacità di agire e di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche, e quindi anche l’insieme delle regole e dei procedimenti per svolgere un’attività umana in vista di determinati risultati”.
L’AI, per quanto efficiente sia, potrebbe mai entrare nella testa di un musicista oppure di un cantante, visionare le sue esperienze, le emozioni che ha provato, le sensazioni nascoste dietro ogni ricordo e tramutarle in una canzone? Ovviamente no. Dovremmo comprendere che, al netto dell’imitazione della voce e delle cover di singoli già celebri, produrre da zero un brano è un’arte reale e in quanto tale necessita davvero di cura, dedizione, passione. Ha bisogno di nascere da una mente pensante, ma anche di un cuore pulsante. Ha bisogno di essere creata, nel senso letterale del termine. Ha bisogno di vivere immersa in sentimenti veri e, solo se chi l’ha generata li ha provati, li può trasmettere anche agli ascoltatori.
Pensiamoci bene: ogni singolo contenuto in ogni album del mondo non affatto un mero insieme di note, ma è un insieme di note, vita vissuta, emozioni. Questo fa un artista vero: vive e poi riversa tutto quello che gli accade, che vede e che prova nella sua musica. L’intelligenza artificiale, per quanto sofisticata possa essere, non sarà mai in grado di farlo, dobbiamo ammetterlo.
E infatti, non a caso, anche il succitato Drake, protagonista di questo “scambio di persona”, si è limitato a scrivere su Instagram un post tanto semplice e breve quanto diretto ed esaustivo: “Questa è la goccia che fa traboccare il vaso: AI”. Dobbiamo precisare che questa sua affermazione arriva non dopo il suo feat (finto) con The Weeknd, ma dopo un video in cui pareva rappare il brano degli Ice Spice Munch (Feeling U), ma in ogni caso poco cambia: probabilmente anche il rapper ne ha abbastanza di quest’arte astratta che ormai impazza ovunque.
E non è neanche l’unico: anche Universal Music Group ha scritto ai servizi più importanti di streaming (tra cui Spotify e Apple Music) per chiedere loro che AI fosse estromessa dai loro archivi. L’ipotesi sembra essere questa: probabilmente le società che si occupano di intelligenza artificiale usano i loro servizi streaming per “insegnare” (se così si può dire) ai loro software a imitare le voci degli artisti, quelli veri.
In effetti vi è una vasta fetta di artisti che ha lanciato una campagna chiamata proprio Human Artistry Campaign – con l’appoggio anche della Recording Industry Association of America, dall’Association for Independent Music e dalla BPI, che unisce i produttori indipendente britannici – nata, come dice il nome stesso, con il chiaro scopo di garantire che l’intelligenza artificiale non “eroda” la creatività umana. Una delle sue finalità è quella di proteggere il copyright, che dovrebbe essere concesso solo alla musica creata dagli esseri umani.
Come ha affermato Harvey Mason Jr, Ceo della Recording Academy: “C’è tantissimo potenziale nell’IA, ma presenta anche dei rischi per la nostra comunità creativa. (…) “È fondamentale chiarire bene da subito come utilizzare l’IA, in modo da non rischiare di perdere la magia artistica che solo gli esseri umani possono creare”.
Di fatto, però, c’è qualcosa che non torna: è particolare il discorso sui diritti d’autore in questo senso. Per capire di più possiamo fare qualche esempio: il succitato Heart On My Sleeve non viola i diritti d’autore, essendo una composizione originale al 100%. Anzi, l’autore ha anche ammesso esplicitamente che né Drake né The Weeknd hanno alcun nesso con la realizzazione della canzone e in questo modo si sono protetti comunque da ogni eventuale accusa di “contraffazione”, perché già solo specificando questo hanno fatto intendere di non avere ingannato il pubblico.
Dove andremo a finire continuando così? Ai posteri l’ardua sentenza.
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