L’Inter è la prima finalista di Coppa Italia. Il ritorno della sfida contro la Juventus a San Siro infatti è stato vinto dagli uomini di Simone Inzaghi grazie al gol di Federico Dimarco al 15esimo. E quindi è bastato il più nerazzurro di tutti (almeno in campo) per piegare gli uomini di Massimiliano Allegri, mai stato davvero cattivi e incisivi, né prima né dopo i cambi dell’allenatore toscano. Per la prima volta nella storia della Beneamata, i nerazzurri eliminano la storica rivale dalla Coppa Italia in semifinale.
E a proposito di Toscana, domani si giocherà l’altra semifinale, e lo si farà in un Artemio Franchi di Firenze in cui la squadra di casa, quella di Vincenzo Italiano, arriva avvantaggiata dei due gol all’andata contro la Cremonese. La Fiorentina, però, ha rischiato anche in Conference League di lasciare sul più bello, o quasi, e quindi per sapere chi l’Inter affronterà il 24 maggio a Roma, allo stadio Olimpico, ci sarà da attendere almeno 24 ore.
È la semifinale di ritorno della Coppa Italia, è un derby d’Italia, ed è anche una delle partite più importanti della stagione sia per l’Inter – che tra l’altro deve ancora giocarsi l’entrata in finale di Champions League contro il Milan in un altro derby, che quello sì sarà la gara più importante -, sia per la Juventus – anche loro chiamati a dire la propria fino alla fine in Europa League contro il Siviglia, e poi chissà.
È la solita bolgia San Siro, pieno di 75mila tifosi, per lo più nerazzurri, che faranno tutto per spingere la squadra ad arrivare fino in fondo anche nella coppa nazionale, ed è anche il solito derby, preceduto dalle polemiche, e da qualcosa di rivendicare, per i cori razzisti, e per le esultanze. Se, infatti, Romelu Lukaku potrà tornare in campo (ma non dal primo minuto per scelta di Simone Inzaghi), nonostante il no della Corte sportiva d’appello al ricorso presentato dalla società milanese, lo si deve solo a Gabriele Gravina, mentre dall’altra parte è stata data ragione ai bianconeri per un errore, un ritardo della Procura federale per l’apertura della curva contro il Napoli, ecco che il cocktail perché per l’ennesima volta questa Inter-Juventus sia molto di più è servito.
Un cocktail in cui l’allenatore ex Lazio, che domenica alle 12:30 potrebbe regalare proprio contro la sua ex squadra lo scudetto ai partenopei di Luciano Spalletti, ha scelto di mettere (qua per forza di cose) André Onana in porta, nella difesa a tre i soliti (ormai) Matteo Darmian, Francesco Acerbi e Alessandro Bastoni, più avanti Denzel Dumfries, Nicolò Barella, Hakan Calhanoglu, Henrikh Mkhitaryan e Federico Dimarco, e in attacco Edin Dzeko, preferito al belga, e Lautaro Martinez.
E a cui Massimiliano Allegri ha risposto tenendo conto delle esigenze, e degli infortuni e squalifiche. A difesa dei pali, il toscano ha preferito dare una chance a Mattia Perin, a comandare la retroguardia, invece, ha messo il capitano Leonardo Bonucci, supportato a destra da Gleison Bremer e a sinistra da Alex Sandro, davanti una linea a cinque con Mattia De Sciglio (che ha sostituito Juan Cuadrado), Fabio Miretti, Manuel Locatelli, Adrien Rabiot e Filip Kostic, e poi Angel Di Maria come trequartista a supporto di Federico Chiesa, preferito ad Arkadiusz Milik.
A partire più forti sono i padroni di casa, che neanche in quest’occasione rinunciano a costruire il gioco e a essere propositivi davanti alla porta della Juventus. Il pressing diventa poi letale al 15esimo quando Dimarco, che è nato e cresciuto all’Inter, riceve una palla in area e dritta da parte del sardo e batte senza problemi (e non in fuorigioco) il portiere ex Genoa. E la bolgia esplode.
Lo fa di nuovo, in altre due occasioni, sempre dei nerazzurri, che non si accontentano di un gol di vantaggio prima di andare negli spogliatoi, e ci provano entrambe le volte con il campione del mondo, la prima volta Lautaro ci tenta con un tiro dalla media distanza che esce di poco, la seconda volta, invece, è un po’ più impreciso e finisce sopra la traversa.
C’è anche la squadra di Allegri, però, in campo, e il primo squillo dei bianconeri arriva al 34esimo con una bordata dal limite di Kostic diretta sotto la traversa, c’è Onana a neutralizzare il pericolo e lasciare il risultato invariato. È un segnale, però, che l’Inter coglie perché si rifa pericolosa sempre con il numero 10 argentino, che si è sbloccato in campionato contro l’Empoli (esattamente come Lukaku, che ha addirittura fatto doppietta) e adesso vuole mettere la firma anche in un match che vale un’altra finale, e contro i rivali di sempre. Non lo farà sicuramente, però, nel primo tempo, perché nonostante il minuto di recupero, Daniele Doveri fischia per due volte e manda tutti negli spogliatoi.
Al ritorno, l’allenatore della Juventus decide di mischiare le carte, e quindi al posto del serbo ex Eintracht Francoforte mette Milik, che prende il posto in campo del figlio d’arte, che invece torna a fare l’esterno. La partita ricomincia equilibrata, con l’Inter che cerca di colpire in contropiede, mentre gli ospiti tentano dalla distanza, nessuna delle due ci riesce per davvero. Perché al 52esimo, effettivamente, Dzeko riesce con una serie di finte e controfinte a baciare il secondo palo e poi gonfiare la rete, ma era fuorigioco e quindi non vale nulla. Sette minuti più tardi arriva anche il primo cartellino giallo, Locatelli viene punito, infatti, per una trattenuta con annessa manata su Barella, sono anche, però, gli ultimi scampoli di partita per l’ex Sassuolo che viene rimpiazzato con Leandro Paredes.
Al 67esimo, un nuovo brivido per l’Inter: la sgroppata sulla fascia di Dumfries, infatti, porta l’olandese a un cross che Lautaro Martinez sbaglia di un soffio, poi è il momento dei cambi anche per Inzaghi. Il bosniaco esce dal campo per il belga, e l’ex Cagliari, un po’ contrariato ma non arrabbiato, lascia spazio all’amico Marcelo Brozovic, nello stesso momento anche Allegri decide di togliere Bonucci per mettere dentro Danilo.
Neanche con questo nuovo assetto la Juventus riesce a fare male ai nerazzurri, che invece riescono a essere più pericolosi. L’esterno destro si conquista una punizione dal limite dell’area che l’autore del gol spedisce sulla barriera dei bianconeri, ma che arriva sui piedi di Mkhitaryan (in posizione regolare) che si coordina con un destro al volo, a fare il miracolo, però, ci pensa Perin, che toglie ancora le castagne dal fuoco alla sua squadra, che ora ha venti minuti più recupero per sperare di arrivare almeno ai tempi supplementari, e quindi sale di giri.
Ci prova con Rabiot prima e Di Maria dopo, e poi arrivano altri due campi per Inzaghi, che toglie il Toro per mettere dentro Joaquin Correa e Dimarco per mettere Robin Gosens, ma anche Allegri si gioca l’ultimo cambio: Paul Pogba ha poco più di undici minuti per provare a finire nel tabellino dei marcatori, ma soprattutto mettere la firma sulla stagione dei bianconeri dopo esser stato fermo ai box per gran parte di questa, il francese, infatti, entra al posto del giovane Miretti.
Neanche l’ultima sostituzione cambia lo spartito della gara: l’Inter attacca, va vicino a dare il colpo del ko, poi non ci riesce anche perché la Juventus si difende con molti giocatori in area. Scorrono i minuti, comunque, e arriva anche il momento di Roberto Gagliardini, che entra per un dolore Calhanoglu all’82esimo, e mette anche la testa su una punizione dal limite di Brozovic. Un filtrante di Milik per Chiesa, all’88esimo, potrebbe riscrivere tutta la partita, ma una deviazione facilita il compito del portiere camerunese, che arriva sul pallone prima dell’ex Fiorentina.
Il direttore di gara concede altri quattro minuti agli ospiti per raggiungere il pareggio e ai nerazzurri per chiudere la pratica prima del fischio finale, non succede niente in quel senso, solo un’ammonizione per l’armeno che non era diffidato e ci sarà nella finale del 24 maggio a Roma, perché sì all’Inter è bastato il gol di Dimarco per raggiungere l’ultimo atto della Coppa Italia, e per la seconda volta di fila. Non saranno stavolta, per forza di cose, i bianconeri a sfidare i detentori del titolo, ma una tra i Viola di Vincenzo Italiano e la Cremonese di Davide Ballardini. All’Artemio Franchi si partirà dal 2-0 dell’andata per la Fiorentina, ma nulla è ancora detto, sia perché i grigiorossi hanno fatto fuori, in precedenza, i futuri campioni d’Italia e la Roma di José Mourinho, sia perché anche in Conference League dovevano solo amministrare e hanno rischiato l’imbarcata.
Su una partita del genere, che va anche oltre il calcio e diventa principalmente un discorso di identità e va sul piano dell’essere in un modo o nell’altro, ci sono per forza di cose tante cose da dire. Nella stagione in cui la Juventus è stata penalizzata con 15 punti in classifica dopo l’inchiesta Prisma (ora momentaneamente tolti in attesa che si pronunci di nuovo la Corte d’Appello Federale) e con ancora in ballo la manovra stipendi e il terzo filone legato agli agenti, il distacco tra l’Inter e i bianconeri è diventato ancora più ampio.
Non parliamo di campo, ovviamente, ma degli schieramenti dell’una e dell’altra tifoseria, del modo di vivere il calcio, nel contrapporsi e nel nervosismo che si è generato. Diversi degli scontri diretti tra le due squadre sono finiti a parole forti volate al cielo, in risse sfiorate e in cartellini rossi. Ci si è messo di mezzo anche il razzismo, Romelu Lukaku e quei maledetti cori che hanno portato Daspo, prese di posizione e poi schierarsi dalla parte giusta. No, questa semifinale non era e non poteva essere come tutte le altre e non lo è stato, poi il campo è stata solo la diretta conseguenza.
Avanti è andata l’Inter, ma questo è un dato arrivato solo dopo e che non incide sull’impalcatura complessiva di ciò che è e che sarà anche nelle prossime settimane. In un’analisi completa dell’evento, però, bisogna partire anche da lì, perché poi è quello il teatro dello sport e della storia e non può passare, neanche in questo caso, in secondo piano. In campionato quest’anno per due volte su due aveva vinto la Juventus e senza mai subire gol, segno di una superiorità tattica e probabilmente a livello di energie che permetteva ai bianconeri di essere i grandi favoriti anche in quest’occasione. In precedenza, infatti, il copione della partita non era mai stato tanto diverso con l’Inter che ha cercato in entrambe le occasioni di fare la partita e di mettere in campo quelle qualità per cui i nerazzurri ormai sono ammirati in tutta l’Europa. Cioè, un possesso palla accerchiante e che porta la Beneamata spesso al limite dell’area di rigore o con uno scarico sugli esterni e a cross puntuali per le punte. In generale, il dominio del gioco nella sua definizione più semplice che poi vuol dire abbassare gli avversari, costringerli nella loro area di rigore e far sì anche di non subire attraverso l’arma del possesso palla.
Con la Juventus, però, non era una strategia che aveva pagato, anche perché in entrambe le occasioni gli attaccanti nerazzurri non erano stati capaci di tramutare in gol le occasioni avute. Invece, aveva prevalso la difesa serrata dei bianconeri, abili ad accettare di giocare senza il pallone, abbassare le linee e preoccuparsi soprattutto di bloccare ogni spazio disponibile per mantenere lo zero sul computo dei gol subiti. Se c’è un’avversaria che, proprio per questo motivo, partiva avvantaggiata rispetto ai nerazzurri è proprio la squadra di Allegri.
Il tecnico livornese, di fatti, già nella preparazione di quel doppio confronto, ha assimilato questo trend, ma con il vantaggio di prepararci sopra anche la rivoluzione, il ribaltone di fronte offensivo. Soprattutto con Filip Kostic e Adrien Rabiot sulla fascia sinistra, ma anche con centrocampisti e attaccanti, appena era calata la pressione dell’Inter, la Juventus è ripartita in contropiede con la ferocia di chi è pronta a sorprendere l’avversario e così è stato, addirittura con quattro reti segnate in due match.
Con queste premesse, anche la semifinale di Coppa Italia, nonostante sia una coppa che Inzaghi conosce e prepara bene, si presentava come un tranello di non poco conto da scansare e nella prima delle due partite, quella all’Allianz Stadium, il copione proposto non è stato tanto diverso. La Juventus si è abbassata, l’Inter non ha trovato spazi, ancora la Juventus ha colpito e con veramente poche speranze per i nerazzurri di ritrovare la gioia in un periodo già di per sé complicato, con un percorso in campionato che non portava i suoi frutti, la volontà di andare avanti in Champions League e farlo dalla porta principale, ma anche un calendario congestionato e in cui recuperare le forze è quasi impossibile. Il gol di Lukaku su calcio di rigore, oltre a tutto quello che ha comportato, è come se avesse sbloccato mentalmente i nerazzurri in una stagione che contro la Juventus sembrava maledetta.
E, quindi, il match di ritorno, con base un 1-1 che lasciava aperti i conti, è stato totalmente diverso da tutti quelli che si erano visti prima. L’Inter non si è snaturata, non ha cercato di abbassarsi e di attendere gli avversari, non davanti al suo pubblico e non contro questa Vecchia Signora. Ha palleggiato con maggior ritmo, maggiore qualità e con gli attaccanti che hanno vinto quanti più duelli possibili contro un Gleison Bremer ancora poco convincente e un Leonardo Bonucci al rientro da mesi di infortunio e comunque abile a resistere. Il quadro complessivo è ancora desolante per i torinesi e per i suoi tifosi. Nel primo tempo c’è stata veramente poca storia con l’Inter che, senza troppe difficoltà, riusciva a sfondare sugli esterni e poi direttamente in area di rigore.
Di ripartenze dei bianconeri, invece, neanche l’ombra. Il duo inedito scelto per collimare il 3-5-2 di Allegri, in assenza di Vlahovic, è stato quello composto da Chiesa e Di Maria. La chiara intenzione era quella di trovare i due funamboli palla al piede in contropiede, ma i ragazzi di Inzaghi lo sapevano e hanno svolto un ruolo certosino con le mezzali, molto brave a chiudere in fase difensiva e far ripartire l’azione con qualità. Insomma, a conti fatti la Beneamata ha subito poco o nulla, ma soprattutto ha proposto l’azione come un martello pneumatico che continua a premere fino ad arrivare nel sottosuolo. Nel gol di Dimarco c’è tutto quello che vi stiamo raccontando: prima di tutto l’impostazione forzata, centrale, di Calhanoglu e un Barella che, per una volta, anziché andare dalla punta di riferimento, becca l’inserimento estemporaneo del suo terzino, freddo a trafiggere Perin. La difesa della Juventus poteva fare meglio? Forse nei contrasti, ma in generale è giusto, a questo punto, rimproverare alla Vecchia Signora per l’atteggiamento espresso in campo, non solo stasera, ma per tutta la stagione.
Basta leggere la rosa a disposizione di Allegri per capire la qualità che i bianconeri possono esprimere in campo. Tolto Pogba che non è mai veramente tornato come valore tecnico e leader di questo gruppo, si parte da Vlahovic e Di Maria, ma si arriva ai vari Kostic, Locatelli, Fagioli, Milik e una profondità di rosa che nessuna delle altre big può avere in Serie A. Esattamente come la Juventus ha il maggior monte ingaggi, e neanche questo è un dettaglio per capire chi sia la favorita nelle competizioni italiane e chi non lo sia. Già nei minuti durante la partita, sono stati in tanti a lamentarsi di come la Vecchia Signora ha approcciato anche a un match così importante per definire un’intera stagione, quello che in molti stanno chiamando non gioco e che ormai si associa quasi automaticamente a Massimiliano Allegri.
Dopo tre sconfitte in campionato arrivate quasi tutte nella stessa maniera (Napoli a parte, forse) e quest’addio prematuro alla Coppa Italia, il tempo del perdono sembra essere finito per un allenatore che ha comunque scritto la storia della Juventus, ma dal suo ritorno ha avuto veramente pochi acuti e poche gioie da regalare ai torinesi. Già durante il match, dicevamo, il Twitter bianconero è esploso di insulti e di rabbia nei confronti dell’allenatore che sono comunque da condannare, ma esprimono un sentimento di condanna e scollamento veramente difficile da cancellare, arrivati a questo punto. Di seguito ve ne diamo brevemente dimostrazione, anche perché c’è anche chi rimpiange Andrea Pirlo, in generale chi guarda a un futuro che, comunque vada, dovrà essere una ricostruzione totale.
A parte alcuni dei termini e delle espressioni utilizzate, e molte ve le abbiamo anche risparmiate, enfatizzano il concetto di un allenatore che non esprime le volontà di calcio che ormai tutti i tifosi pretendono di vedere per la propria squadra e cioè un gruppo propositivo che pressa alto, ha tutta l’intenzione di comandare in lungo e in largo la partita e poi di concretizzare le occasioni da gol create. Questo, negli ultimi due anni, alla Juventus proprio non si è visto, così come non è chiaro dove vada a parare quest’atteggiamento risultatista a lungo termine, in una rosa che è composta anche da diversi giovani da far crescere e maturare a Torino, per poi farne i cardini di quello che sarà il futuro.
Una delle critiche maggiori mosse verso l’allenatore, infatti, è quella di aver depotenziato un calciatore come Vlahovic. È vero, questa non è stata l’annata migliore per il serbo che ha dovuto fare i conti a lungo con una pubalgia fastidiosa e usurante, ma i palloni giocabili per lui nel corso della partita sono veramente pochi. Spesso è costretto a ripulire palloni e a fare a sportellate, con alterne fortune, o a dedicarsi in attacchi in contropiede affannosi e solitari contro una serie di linee avversarie pronte a chiuderlo. Molto meno spesso gli arrivano dai lati i palloni che vorrebbe in area di rigore e che per lui sono vitali per sentirsi al centro del progetto, fuori da qualsiasi forma di frustrazione, e che gli permettono di andare in gol con continuità. Se il gioco della Fiorentina e di Vincenzo Italiano calzava alla perfezione con i suoi intenti tecnici e tattici, lo stesso non si può dire per quello che ha trovato alla Juventus e che spesso si è tramutato in gesti di stizza, insofferenza, frustrazione appunto.
Un po’ si tratta della stessa involuzione che sta vivendo Angel Di Maria, con qualche differenza, legata soprattutto all’età dell’argentino. Lui non è stato un investimento fatto per un progetto a lungo termine, ma quel calciatore che nell’immediato avrebbe dovuto dare la spinta necessaria per portare un gruppo alla vittoria e far crescere alle sue spalle anche i giovani. In bianconero, però, vediamo un Fideo a due facce: spesso triste, relegato ai margini del gioco per molti minuti della partita e costretti ad abbassarsi praticamente in mezzo al campo per giocare palloni e far decollare la manovra dei suoi.
Capita, però, sempre più spesso, che di fatti i suoi compagni non riescano a innescarlo e che la sua qualità non rientri in una visione corale del gioco che non lo esalta affatto. In tal senso, ci viene in aiuto l’ultimo match contro la Lazio, decisivo per la corsa alla prossima Champions League, e in cui i biancocelesti sono riusciti a prevalere dopo la sconfitta dell’andata. In quell’occasione, abbiamo visto un Di Maria indolente, poco centrale nel gioco, relegato in una porzione laterale del campo in cui ha fatto veramente fatica ad accendersi e a esprimere i cardini fondamentali del suo gioco, quelli che l’hanno reso uno dei migliori in assoluto nel suo ruolo e nella storia del calcio, forse, sicuramente per gli argentini.
Comunque, sempre in quel match contro la Lazio, Allegri decise di passare al 4-3-3 a partita in corso per sistemare le cose e magicamente, tra i ventidue in campo, si è visto un mostro di tecnica, cuore e grinta prendere in mano la partita. Di Maria ha iniziato a dribblare, scartare avversari, creare la superiorità numerica e ha messo a ferro e fuoco per venti minuti la difesa più strutturata e che ha subito meno dell’intero campionato, quella di Maurizio Sarri. Sembrava un segnale che potesse dare il via a qualcosa di nuovo, di diverso e a un nuovo progetto tattico che con l’avanzamento in pianta stabile di Kostic e il ritorno di Chiesa poteva vedere la luce. In realtà, è stata una soluzione solo riproposta a partita in corso e spesso non così distruttiva come poteva sembrare, anche perché la prova della continuità non ha avuto neanche il beneficio di darla.
Le critiche ad Allegri comunque sono anche aumentate quando sono arrivate informazioni su ciò che è successo nel postpartita. Il tecnico, infatti, secondo una ricostruzione de “La Gazzetta dello Sport” si sarebbe riferito a due dirigenti avversari, nello specifico a Marotta e Baccin, con una frase decisamente poco carina e che palesa il nervosismo di un tecnico che ha visto svanire un altro trofeo: “Siete delle m…, ma tanto arrivate sesti”. E subito dopo si è riferito anche ai suoi con un invito assolutamente non velato: “Dobbiamo arrivare davanti a loro in campionato, non dobbiamo mandarli in Champions”. Insomma, chi pensava che anche stavolta Inter-Juventus avrebbe dato motivo di polemica e di rabbia è stato accontentato, anche se stavolta non è successo a favore di telecamera, ma nel sottopassaggio.
In realtà, sono parole che non hanno trasferito un senso di juventinità o di appartenenza forte, anzi sono state condannate anche dagli stessi tifosi bianconeri, che l’hanno accusato per l’ennesima volta di andare contro lo stile che raffigura il club da decenni. Di sicuro, nelle prossime settimane, tra Europa League e campionato, ci si aspetta una reazione forte e convinta, ma anche una svolta nel gioco. Perché il partito dell’esonero ora è sempre più folto e alla lunga potrebbe essere anche accontentato.
Per quanto riguarda l’Inter, invece, l’accesso alla finale di Coppa Italia dopo aver eliminato i loro rivali storici ha portato un’ondata di soddisfazione che i tifosi sperano possa dare la giusta spinta anche per un finale di stagione al cardiopalma. La gioia dei nerazzurri è raffigurata a pieno dalle parole di Alessandro Bastoni, uno dei leader più identificativi del gruppo, a fine partita: “Penso che il nostro segreto sia la voglia di conquistare grandi obiettivi e di lottare tutti insieme. Quando la squadra lotta e gli attaccanti difendono insieme a noi, viene tutto più facile e così facendo dimostriamo di essere una grande squadra”. Una grande squadra, una squadra vincente: un sogno che l’Inter ricerca da mesi nella dimensione restituita da Inzaghi, ma che spesso ha dovuto abbandonare nell’atavica lotta con gli alti e bassi e con gli ostacoli che si trova davanti chi cerca di costruire qualcosa di grande.
Il calcio, però, sa anche perdonare gli errori e la voglia di attaccare, di mettere in piedi una manovra eccezionale e tra le prime d’Europa alla lunga paga dei dividenti che possono essere anche inaspettati. Quest’anno, almeno nelle coppe, è successo esattamente questo, dato che è arrivata una semifinale di Champions League e ora anche la finale di Coppa Italia. Se si parla di aspettative, sono state certamente rispettate: ora c’è il campionato, in cui bisogna recuperare, fare filotto e conquistare la prossima qualificazione alla massima competizione europea, ma ci sono ancora diversi punti da mettere in cascina e non pare cosa impossibile, non a questo punto.
Anche perché, proprio nella parte più importante della stagione, Inzaghi sembra aver recuperato la vivacità di un attacco che per larghi tratti del 2023 è parso spento e sicuramente un freno per i nerazzurri. Dopo la conquista del Mondiale con l’Argentina, Lautaro Martinez ha iniziato a spargere la sua qualità e il suo fiuto per il gol anche con l’Inter, ma poi si è bloccato per un mese abbondante e con lui tutti i principali interpreti offensivi dell’Inter. Dzeko neanche stasera è riuscito ad andare in gol, ma ha fatto rivedere alcuni dei pezzi forti del repertorio e ha messo in crisi un difensore ottimo in marcatura qual è Bremer.
Il grosso vantaggio a maggio e giugno dovrà essere il ritorno in pianta stabile nel tabellino dei marcatori di Romelu Lukaku. Il belga contro la Juventus è solo subentrato e senza lasciare il segno, ma è visibile anche solo dai primi stop del pallone, dalle corse e dall’abnegazioni in entrambe le fasi di gioco che il centravanti ora stia nettamente meglio rispetto a qualche tempo fa e dopo quello che lui stesso ha definito l’infortunio più grave che ha avuto in carriera. Il match contro l’Empoli ha permesso di capire che uno come lui può ancora fare la differenza e rientra nella categoria di calciatori che riesce a farlo all’improvviso, anche se gli si concedono solo pochi metri di spazio o la possibilità di puntare dritto l’avversario e poi la porta.
Infine, c’è Joaquin Correa che, rispetto a qualche settimana fa, non sembra più un elemento avulso dal gioco, ma un calciatore che fa molto comodo a Inzaghi nelle rotazioni di un calendario frenetico e folle, come l’ha definito lui stesso, e che in determinate partite può fare la differenza con i colpi forti del repertorio che ogni tanto tira fuori dal cilindro. L’argentino servirà sempre di più e non è detto che, in alcuni match, non possa anche essere un fattore decisivo.
Insomma, Inzaghi ha l’imbarazzo della scelta e deve solo sperare di non perdere elementi essenziali per la sua Inter a cavallo della semifinale di Champions League. Ieri Barella, uno dei più positivi nell’ultimo mini ciclo, ha accusato un problemino muscolare, ma si è fermato per tempo, tanto da indicare più volte alla panchina la sua ferrea volontà e possibilità di restare ancora in campo. I controlli verranno effettuati, come da prassi, 24 ore dopo, ma dovrebbero scongiurare qualsiasi tipo di infortunio. Lo stesso vale per Calhanoglu, da poco rientrato a pieno ritmo, ma che ieri è stato sostituito per un problema all’adduttore: i medici hanno da subito rassicurato Inzaghi, ma anche in questo caso la prudenza è massima e i controlli saranno decisivi nella gestione del turco ex Milan, quello che probabilmente la semifinale contro la sua ex squadra la sente più di tutti e non ne fa neanche mistero.
Ora, però, anche oltre la prudenza, è pure il momento di godersi una serata che ha permesso per la prima volta nella sua storia all’Inter di eliminare la Juventus. Un Inzaghi soddisfatto e raggiante, ben diverso da quello che pochi giorni fa doveva – secondo molti – scansare l’esonero, si è presentato ai microfoni dei giornalisti descrivendo il successo dei suoi: “È stata una bellissima serata, le due squadre hanno disputato una partita intensa. Abbiamo meritato la finale nell’arco delle due partite, volevamo tornare a Roma e ce l’abbiamo fatta. Ci godiamo la serata con i ragazzi e con i tifosi, con questi ritmi non è facile”.
Sì, Inzaghi ha ragione, la vittoria dell’Inter è stata meritata e nessuno avrebbe potuto sorprendersi se il passivo nella gara di ritorno fosse stato più pesante. Lautaro Martinez, almeno in un paio di occasioni è andato vicino a battere Perin e il portiere della Juventus ha dovuto sfornare una parata difficilissima su Mkhitaryan per far sì di non dover finire sul 2-0 prima del tempo. Poi, anche quando nei minuti finale l’Inter si è abbassata, non ha subito più di tanto la voglia della Vecchia Signora di andare ai supplementari. Tra le braccia di André Onana sono arrivati dei cross semplici da gestire e le parate degne di nota non sono state affatto tante, spesso arrivate senza patemi.
Qualche parola bisogna spenderla, infatti, anche sulla difesa della Beneamata, capace di blindarsi quando serve grazie alle corse di centrocampisti e attaccanti all’indietro, alla copertura corale di tutti gli spazi, ma anche grazie al lavoro encomiabile degli interpreti difensivi del ruolo. Bastoni, lo ribadiamo, è sempre più un leader emotivo e strutturale di questo gruppo e Matteo Darmian è una certezza, un calciatore che sta riuscendo a mettere insieme una serie di prestazioni di primo livello in un ruolo che non è propriamente il suo. Lo stop e l’addio all’orizzonte di Milan Skriniar, uno che aveva anche la fascia di capitano al braccio, avrebbe destabilizzato qualsiasi ambiente e, invece, l’Inter ha saputo ristrutturarsi, cambiare, ripartire da chi c’era e da chi ci voleva essere, senza avere rimpianti alle spalle.
Il segreto di Inzaghi, in tal senso, è anche trovare un leader contestato e alla fine della sua avventura alla Lazio come Francesco Acerbi. Il 35enne di Vizzolo Predabissi ha un’esperienza e una personalità che per prestazioni lo mettono tra i primi nel suo ruolo in Italia, almeno allo stato attuale delle cose. Stasera contro la Juventus non ha sbagliato praticamente nulla, ha avuto il coraggio di uscire alto contro i diretti avversari e ha per statistiche i numeri difensivi migliori della partita. Nei match di cartello, Inzaghi non ne può fare più a meno e sapeva già la scorsa estate di aver raggiunto al suo arco una freccia di primo livello che altri intanto avevano sicuramente sottovalutato.
A domanda diretta, il tecnico nerazzurro nel post partita ha risposto: “Con fatica i dirigenti mi hanno accontentato. Lo conosco e ha qualità fuori e dentro il campo. Ci sta dando una grossa mano e insieme ai suoi compagni sta facendo un ottimo percorso nelle coppe”. Eh sì, e pensiamo proprio che non si siano pentiti dell’investimento fatto. In estate delle cose cambieranno: bisognerà capire quanti fondi ci saranno, se Stefan de Vrij alla fine rinnoverà il suo contratto e certamente dovrà essere trovato un sostituto all’altezza di Skriniar. Di sicuro, però, Inzaghi spingerà per la permanenza di Ace, uno che definire un fedelissimo è poco e che ha portato tanto anche dal punto di vista della mentalità. Uno che dopo una finale del genere si erge a leader anche sui social e scrive: “Non abbiamo vinto niente, ma godiamoci questa serata”.
Non è facile, per tutto ciò che significa, rispecchiare a pieno i valori dell’Inter, ma uno che riesce a farlo a pieno è certamente Dimarco. Il terzino italiano si è rivelato ancora una volta decisivo nello scontro con una diretta rivale e già era successo nella finale di Supercoppa italiana contro il Milan. La condizione fisica ancora non gli permette di non finire nel novero delle sostituzioni di Inzaghi, perché lui dà tutto, non si risparmia e poi paga dazio, anche al nervosismo. Vederlo con l’asciugamano in faccia nei minuti finali, senza avere il coraggio di guardare, dà la dimensione di un esterno valido e dal gran piede, ma che prima di tutto è interista, tifoso come quelli sugli spalti e che questi valori se li riporta dentro ogni volta che scende in campo con quelli colori sulla pelle e con quello stemma sul petto.
Ora con dieci partite rimaste da giocare – i tifosi sperano che siano undici -, l’Inter non può far altro se non dosare le energie e pensare partita dopo partita, senza troppo tempo per prepararle. Non dimentichiamo che domenica arriva la Lazio a San Siro e non sarà affatto un match facile contro una squadra riposata e che vuole rivendicare la miglior posizione in classifica e nella corsa per la Champions League, ormai fuori dalle coppe. Inzaghi, contro i suoi ex calciatori, dovrà sfornare un’altra super prestazione, ma avrà qualche giorno ancora per pensarci. Perché stasera un sorriso gli è uscito sul volto provato da tante serate così e la sua speranza, ma anche il suo valore, sono concentrati per forza sul vincere il più possibile, perché è solo così che si entra nella storia.
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