Dalle 20, a Riad, in Arabia Saudita, è andata in scena la Supercoppa italiana tra il Milan, vincitore dello scudetto, e l’Inter, detentrice della Coppa Italia. Ad avere la meglio sono stati i nerazzurri di Simone Inzaghi, che già nel primo tempo erano avanti di 2-0 grazie ai gol di Federico Dimarco e Edin Dzeko. Il sigillo, però, sul match lo mette Lautaro Martinez al 77esimo, con una rete di esterno bellissima.
Una reazione era anche arrivata dal Milan, non abbastanza forte, ma soprattutto non abbastanza convincente per battere l’Inter, che per il secondo anno di fila riesce a portare a casa la coppa.
L’Inter ha vinto la Supercoppa italiana contro il Milan
Un derby ad alto contenuto emotivo – come sempre, ma un po’ di più oggi – quello tra il Milan, vincitrice dello scudetto nella passata stagione, e l’Inter, che invece ha alzato al cielo la Coppa Italia a maggio. Un derby di Supercoppa italiana come non si vedeva dal 2011, esattamente l’ultima edizione senza la Juventus.
Un derby in cui si cercavano conferme, da una parte e dell’altra, i rossoneri che venivano da due pareggi pesanti in campionato e una sconfitta, ancora più pesante, nel torneo nazionale contro il Torino, i nerazzurri che, dopo la sbornia di entusiasmo che è seguita alla partita contro il Napoli, aveva mostrato ancora una volta tutti i suoi limiti. Ed è con la voglia di rivincita, anche un po’ di vendetta, che sono scese in campo, a Riad, King Fahd International Stadium, le due squadre milanesi.
Stefano Pioli si è affidato ai migliori possibili: in porta Ciprian Tatarusanu ha sostituito, come da qualche mese a questa parte, il titolare Mike Maignan, sulla fascia destra il capitano Davide Calabria, mentre sulla sinistra Theo Hernandez, in mezzo Simon Kjaer, tornato dall’infortunio, e Fikayo Tomori. Nel centrocampo a due, poi, da una parte Sandro Tonali, dall’altra Ismael Bennacer, mentre sulla trequarti, a supporto dell’unica punta, Olivier Giroud, Junior Messias, Brahim Diaz e Rafael Leao.
Simone Inzaghi ha risposto con Andrè Onana tra i pali, la difesa a tre composta da Milan Skriniar, Francesco Acerbi e Alessandro Bastoni. Al posto di Denzel Dumfries, sulla fascia destra, l’ex Lazio ha preferito affidarsi a Matteo Darmian, poi Nicolò Barella, Hakan Calhanoglu (il grande ex della partita), Henrikh Mkhitaryan e Federico Dimarco, mentre in attacco, senza Romelu Lukaku, Lautaro Martinez e Edin Dzeko.
Inizia un po’ peggio l’Inter con Bastoni che concede subito un fallo ai cugini, ne nasce una punizione che non impensierisce, però, la retroguardia nerazzurra, cosa che fa invece Dimarco al decimo. È proprio l’ex Hellas Verona a sbloccare immediatamente la partita, su l’assist di Barella in area l’esterno arriva prima degli avversari e porta avanti la Benamata.
La partita cambia e il pallino del gioco rimane tutto nei piedi dei vincitori della Coppa Italia che al 21esimo trovano anche il gol del raddoppio con il bosniaco ex Roma. Un gol alla Diego Milito per lui, che rientra sul destro e cancella forte sul secondo palo battendo il portiere rossonero. Anche dopo il 2-0, lo spartito non cambia: l’Inter attacca, il Milan cerca di contenere i danni, per riprovarci nel secondo tempo.
E in effetti sembrano proprio i Diavoli a partire meglio nella seconda frazione di gioco. Non sono abbastanza incisivi, però, per provare la rimonta, né da dentro l’area, né da fuori con tentativi sporadici.
Dopo una girandola di cambi, da una parte e dell’altra – Robin Gosens prende il posto dell’autore della prima rete, un po’ acciaccato, Pierre Kalulu, Charles De Kaetelare e Divock Origi che entrano per Kjaer, lo spagnolo e Messias, e ancora Joaquin Correa e Roberto Gagliardini che rilevano il migliore in campo e l’autore del primo assist -, al 77esimo arriva il colpo del definitivo ko per i rossoneri. Skriniar lancia il campione del mondo che si libera di Tomori e, con un tocco di esterno, fa un gol bellissimo.
Non servono a nulla le successive sostituzioni di Pioli: per la seconda volta di fila, e per la settima totale, l’Inter alza al cielo la Supercoppa italiana.
L’Inter domina il Milan in lungo in largo: estasi nerazzurra e psicodramma rossonero
Quando sul trofeo si inizia a scrivere il nome del vincitore è sempre un momento emozionante e fatale. Oggi dopo solo quindici minuti la lettera I e poi la N hanno iniziato a comparire su quella base metallica un po’ funzionale e un po’ luccicante, ma pur sempre umile. Sì, perché la finale di Supercoppa italiana questa sera è stata molto meno combattuta del previsto, è stato un assolo a senso unico, di quelle sinfonie letali che paiono la schitarrata del chitarrista rock di una vita e il pubblico può solo assistere e poi applaudire. Senza rivali.
Quindi, prima di tutto, applausi ai vincitori e lodi all’Inter che è giusto così quando il tuo capitano va al centro del palchetto si piega sulle ginocchia e poi alza la coppa al cielo. E una volta liberato quel palco, però, c’è spazio per le analisi degli sconfitti, di quello che proprio non ha funzionato. E vedere il Milan campione d’Italia così è roba da reparto di psichiatria sportiva. I rossoneri sono svuotati, sulle gambe, slegati e fatalmente fragili dal punto di vista difensivo, proprio nei singoli che l’hanno scorso avevano trascinato il gruppo a un successo storico e per molti inaspettato.
Ma facciamo un passo indietro, partendo dall’altare dei vincitori che oggi si è colorato totalmente di nerazzurro e senza dubbio alcuno, anche a chilometri e chilometri dalla nostra Italia. La partita inizia un po’ bloccata, guardinga e pure diffidente, quasi a rispettare la forza dell’avversario, ma anche ad assaporare la pressione che una finale con i rivali di sempre porta sotto braccio. E dopo dieci minuti così, la serpe che l’Inter non ha in seno, ma nei piedi, per aggredire e avvelenare, è venuta fuori e alla maniera di Inzaghi: la via del gioco, nel bene e nel male.
La triangolazione tra Dzeko, Barella e Dimarco è da far rivedere nelle scuole calcio e da allenatori. Per preservare la bellezza come in una teca del destino, ma anche per far didattica e insegnare lo sport più bello del mondo e la tattica del 3-5-2. E non può che essere che destino se ad aprire le danze è quel ragazzo platinato che con l’Inter c’è praticamente nato. Quella maglia la veste da quando ha cinque anni, una seconda pelle che pur volendola scucire non ce la fai, potrebbe servire una lobotomia, ma non è detto che sia una perdita di tempo. La sua esultanza è di gioia rabbiosa come se quel prato fosse iridato e quei metri fosse la pista su cui planare verso il proprio sogno. Obiettivo raggiunto: quel sogno si è realizzato, come si realizza ogni volta che scende in campo con quella maglia. Bravo Dimarco, per essere uno di quelli che non c’è alternativa all’amore per un club e uno solo, senza baci fasulli sullo stemma.
Già lì la serata pareva scritta da un coreografo con la sciarpa dell’Inter attorno al collo. E la conferma è arrivata poco dopo quando Dzeko ha attaccato la profondità, mandato al bar Tonali con una finta stile Milito e, quindi, di classe infinita e poi ha gelato Tatarusanu con un destro potente e incrociato, praticamente imparabile. Per il bosniaco non è una sorpresa, neppure una consacrazione, lui che con il gol ci fa l’amore, si riposa un attimo e poi riprende senza conoscere fatica. E no, non ha più 22 anni come scherzando ha dichiarato nel postpartita, ma l’intelligenza calcistica, i movimenti, la classe non conoscono età e lui sta dimostrando che il rinnovo di contratto più che una scelta saggia è l’unica plausibile per qualsiasi società seria. Senza se e senza ma, anche in barba all’idolatria di un Lukaku che praticamente non c’è mai stato. Ma che presto potrebbe tornare.
Insomma, l’Inter farfallosa e poco farfallona di stasera ci è piaciuta. E sarà piaciuta a chiunque ami il calcio. Perché la squadra di Inzaghi sarà anche un pelo discontinua, pazza per dirla alla maniera della sponda nerazzurra di Milano, ma non riesce a far altro se non passare attraverso la manovra, le triangolazioni, il pressing alto e quelle caratteristiche moderne, di respiro europeo, che probabilmente sono valse anche il passaggio del turno in Champions League nel girone della morte con Barcellona e Bayern Monaco.
Anche stasera, i ragazzi di Inzaghi sono scesi in campo a testa alta, hanno difeso ma davanti e mai arroccandosi nella propria area di rigore, quasi fosse una bestemmia per chi riesce a giocare così. E poi con un Barella e un Lautaro Martinez così è davvero complicato pensarla diversamente. Partiamo dall’argentino che, dopo i fasti di un Mondiale Messicentrico, è tornato a Milano con ancora più fame, con ancora più istinto omicida – sportivamente parlando – e con quella voglia di aggredire la partita, i palloni e gli avversari che solo i grandi campioni hanno. L’ex Racing ha portato a spasso la difesa del Milan con una facilità impressionante: copre il pallone, agira gli avversari, manda al bar Tomori per il 3-0 che chiude definitivamente i conti. Si permette anche il lusso di segnare con un esterno destro sontuoso e regala assist con un passaggio in veronica che non è irridente, è semplicemente di un altro livello. Lautaro dà l’impressione di poter entrare nell’elite del calcio e delle punte, perché le ha tutte: la tecnica che si miscela alla grinta e una fame che si rigenera e alimenta. Come gli argentini, come un campione del Mondo. Uno spettacolo sportivo e mentale che ora è pronto a caricarsi l’Inter sulle spalle.
Per Barella il discorso non è tanto dissimile. Gli aggettivi si sprecano, ma sembrano comunque riduttivi per un centrocampista che corre come avesse sotto il sedere una Piaggio Vespa 946 nuova di zecca, invisibile per gli avversari. Poi negli ultimi trenta metri si trasforma in rifinitore e con una saggezza che tradisce la carta d’identità: l’assist per Dimarco è una perla, ma i veri amanti della tattica avranno apprezzato il tempismo di un inserimento che si insegna in allenamento, ma poi l’applicazione dipende dal campione e lui lo è. Eclettico e totale, per questo unico. Brava l’Inter ad assicurarselo quando si poteva e poi a sgrezzare il diamante, beato Roberto Mancini che potrà costruire la Nazionale italiana attorno a lui.
E stasera, tra le mille e meritate lodi, l’Inter porta a casa anche un clean sheet che è aria pulita per Onana e chi gli sta davanti. Darmian sulla fascia destra sembra aver dato molto più equilibrio rispetto a un Dumfries sempre più lontano dalle dinamiche nerazzurre. Skriniar, Acerbi e Bastoni stasera hanno formato una cerniera che chiude, ma poi ama schizzare in avanti per lanciare il pressing e proporre l’azione. In attesa di capire se lo slovacco si deciderà che maledetto rinnovo di contratto, un seme su cui coltivare il futuro della retroguardia nerazzurra.
Insomma, in quest’Inter ha funzionato tutto o quasi e ci mancherebbe se si racconta un derby dominato da una delle due in una finale. Di contro, del Milan stasera si può dire solo male e senza troppa malizia nell’andarsele a cercare le cose che non vanno. I rossoneri hanno approcciato male alla partita, come contro il Lecce, ma poi rientrarci quando si hanno di fronte avversari così forti sembra quasi impossibile. Il gioco è sembrato slegato, la fase difensiva traballante come non la si era quasi mai vista con Pioli in panchina e la grinta, e quella non ce l’aspettavamo, è scemata fino a un triste 96esimo che ha consegnato la Supercoppa ai rivali di sempre.
Dal punto di vista tattico, c’è tanto di cui parlare. Il gioco sembra latitare, in corrispondenza di un calo fisico e mentale della punta che tutto costruisce e conclude, quel Giroud uscito con le ossa rotte anche dalla finale contro l’Argentina. Il francese è la versione sbiadita di se stesso: ci aveva abituato a riemergere dagli abissi proprio nelle partite che contano, ma ora sembra piombato in un loop di disfattismo difficile da cancellare quando si calca il prato verde. Non tiene un pallone, non conclude, si fa vedere troppo di meno per essere accettabile. Anche stasera è stato sostituito e a ragione, ma senza che entri un Ibrahimovic a metterci la fisicità, la testa e il cuore se lo svedese potrebbe dare se tornasse in forma accettabile.
Sulla stessa scia abbiamo assistito a un Theo Hernandez ancora deludente. Le corse sulla fascia si sono ridotte e difensivamente è difficile tenere a bada le frecce dell’Inter che dialogano e nascondono il pallone sulla loro catena di destra. Poi ci prova dalla distanza, ma spesso andando lontano dal bersaglio. Quel senso di grinta e nervosismo alla partita ce lo mette, per carità, ma in questo contesto diventa quasi insensato.
Un po’ più in alto, ma senza riuscire a sorridere stasera c’è anche Rafael Leao. Il portoghese è la freccia avvelenata di cui il Milan non può fare a meno, ma anche quello con la margherita in mano che non si decide a firmare il rinnovo di contratto che tutti vorrebbero dalle parti di Milanello. Fino a quando i rossoneri restano in partita – se ci sono mai stati – lui corre sulla fascia, dribbla e cerca di creare il solito panico. Poi libera delle vane conclusioni dalla distanza, sbaglia gli stop, diventa inconcludente e sparisce pure lui. Bravi Darmian, Skriniar e Barella, ma il Leao che ben conosciamo è altro e spesso è imprendibile.
Ma il capitolo più orrendo per i tifosi del Milan è sicuramente stato quello dedicato alla linea difensiva. Pioli ha premiato un leader come Kjaer, un po’ per esperienza – che in una finale conta – un po’ perché questo Kalulu non si riconosce neanche guardandosi allo specchio e, quindi, meglio lasciarlo fuori, piuttosto che farlo soffrire come contro il Lecce. Peccato che la coppia tra il danese e Tomori proprio non funzioni. L’ex Palermo tiene in gioco Barella nell’azione che porta al gol dell’1-0, poi soffre maledettamente, tranne quando compie una chiusura meravigliosa su Lautaro Martinez. Se poi passiamo all’inglese le cose vanno anche peggio: sbaglia tutto e per tutta la partita. Non imposta, anzi spesso sbaglia, chiude male, fa fallo, lancia l’argentino dell’Inter verso il 3-0. Insomma, così non va e anche in questo caso le premesse erano già arrivate in Puglia. Irriconoscibile rispetto allo scudo scudetto che il Milan vanta di aver strappato al Chelsea. Calabria almeno ci mette l’orgoglio e l’amore per la maglia senza errori evidenti, ma anche di lui si ricorda poco in questa partita, se non per la mancata chiusura su Dimarco, il suo corrispettivo nerazzurro.
Anche Tonali ha sofferto in questo Milan di gennaio 2023 che non riesce proprio a girare. Perde troppi contrasti, si fa uccellare da Dzeko per il 2-0, poi soffre e si innervosisce visibilmente. Non c’è luce stasera nel talento ex Brescia e forse da lui non ce l’aspettavano, ma semplicemente affonda insieme al Titanic rossonero, ma sarà il primo a rialzarsi.
E, quindi, come può il Milan uscire da questo periodo di crisi di gioco e risultati? L’unica nota positiva stasera è stato un Bennacer che non ha tradito se stesso. L’ex Empoli mette il pallone in cassaforte nello stretto come negli spazi larghi, resiste agli assalti degli e amministra il pallone come chi ha trovato la coppa sacra dell’amore e non voglia cederla a nessun costo. Sì, i campioni d’Italia dovranno ripartire dal loro metronomo e poi dal lavoro. Perché il primo passo per tornare a sorridere sarà certamente una condizione fisica migliore e il recupero dei singoli, poi toccherà guardarsi negli occhi e ritrovare la fame, mettendo da parte le sconfitte del recente passato. Ricordarsi semplicemente che quel tricolore sul petto è cucito sempre lì e andrà difeso fino a giugno, nella versione migliore che Pioli ha plasmato e che ora pare svanita.