A lanciare il funesto presagio è un importante membro dell’esecutivo dell’Iran, secondo il quale la Repubblica Islamica avrebbe ormai raggiunto le capacità tecniche necessarie alla costruzione della bomba nucleare.
Per il presidente del Consiglio Strategico per le relazioni internazionali Kamal Kharrazi, il cui ufficio è subordinato al Ministero degli Esteri di Teheran, non vi sarebbero più impedimenti tecnici a separare la potenza sciita mediorientale dalla fabbricazione di ordigni atomici, anche se per ora si resta nel campo degli annunci.
La situazione internazionale sempre più complessa per via della guerra in Ucraina e delle ricadute su economia, energia ed alimenti genera il sommovimento di quelle nazioni di portata ed influenza regionale, ma che sognano la grande ribalta internazionale.
Uno tra queste è indubbiamente l’Iran: il paese retto da una teocrazia musulmano sciita non ha mai nascosto la sua volontà di acquisire sempre maggior peso nel suo contesto geografico di appartenenza e, in secondo luogo, in tutto il mondo islamico.
Del resto sin dalla svolta confessionale del 1979, quando il golpe teocratico portò al potere Khomeini, il Paese ha riproposto con forza la componente religiosa della propria cultura a motivo di elemento unificante dei vari alleati a Teheran. Di fatto, non a caso secondo questa logica, la Repubblica Islamica è l’unico grande stato sciita dell’area, motivo che lo porta ad intervenire, proteggere e finanziare governi (Assad in Siria) e organizzazioni (Hezbollah in Libano) afferenti a questa concezione della fede musulmana.
Proprio in quanto potenza dagli obiettivi per lo meno macroregionali, Teheran è sempre stata osservata con attenzione dagli Stati Uniti, che hanno investito molto nel primo ventennio del nuovo millennio sul controllo e sulla normalizzazione dell’area sotto la bandiera a stelle e strisce.
Non a caso il rapporto tra U.S.A. e Iran è da tempo un “tira e molla”, si potrebbe dire: il Paese è soggetto a pesanti sanzioni che ne inibiscono piena operatività dei ricchi giacimenti di idrocarburi nonché ne rallentano la corsa alla indipendenza bellico-strategica attraverso il completamento del ciclo produttivo della bomba nucleare.
Tuttavia oggi Washington si trova in una collocazione precaria nei confronti del Paese sciita: da un lato petrolio e gas iraniano potrebbero rivelarsi molto utili da immettere nel commercio mondiale, dati i giochi al rialzo ed i ricatti russi sull’energia; dall’altro si vuole evitare una totale apertura e soprattutto la prospettiva di una forte crescita dell’economia della nazione mediorientale.
Ancora: gli Stati Uniti devono essere in grado di mediare tra gli alleati arabi dell’area, fortemente ostili a Teheran, impedendo tuttavia al paese rivoluzionario di trovare una sponda per uscire dalla propria segregazione internazionale nella Russia di Putin.
Un bel dilemma a cui lo stesso Iran guarda con naturale interesse e che incalza anche attraverso l’annuncio qui in oggetto. Probabilmente l’obiettivo dello stato teocratico è ottenere la riapertura del negoziato del 2015 proprio sul nucleare, accordo questo messo in soffitta da Trump ma che potrebbe tornare in auge quale elemento di mutuo vantaggio per le due potenze: Teheran vedrebbe nuovamente allentarsi la stretta su di lei, l’Occidente potrebbe tentare di attrarre a sé un nuovo importante alleato prima che qualcuno ne approfitti al posto suo.
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