C’è chi la chiama gioventù bruciata e magari la traduce nei brani musicali, colorandola di una pericolosa accezione positiva.
C’è chi invece, come me, preferisce parlare di disagio giovanile. Un disagio che oggi, verrebbe da dire, si misura in dosi. E in storie drammatiche come quella della giovane diciottenne, morta a Monza, mentre si trovava a casa di un’amica dopo una serata passata a bere whisky, gin e psicofarmaci. Questi ultimi tutti acquistati regolarmente e con ricetta dal padrone di casa.
Ma il cocktail assunto dalle due ragazze si rivelerà letale per una delle due. Nessuna sostanza stupefacente, almeno apparentemente. Ma la diciottenne ospite morirà comunque l’indomani mattina, a seguito di un tanto disperato quanto inutile tentativo di rianimazione da parte del padre dell’amica. Che cosa è successo davvero? Doveva essere una tranquilla serata tra amiche, che si è trasformata in un inferno. Ad ogni modo, è bene precisarlo, per fare chiarezza sull’accaduto e sulle cause della morte sono necessari gli esiti autoptici e tossicologici.
Tuttavia, da quel che però si apprende negli ultimi giorni, è verosimile che possa essersi trattato di una pericolosa tendenza figlia del nostro tempo. Una sorta di specchio della generazione Z. Una generazione fatta di ragazzi che si trascinano al limite, che cadono vittima del loro profondo disagio e di una ricerca sempre più disperata di sé stessi. Per intenderci, in una mano lo smartphone, nell’altra il vuoto che li affligge e costantemente li attanaglia. Un vuoto senza fondo, senza bussola per orientarsi, nero come il nulla. Che li rende incapaci di leggere sé stessi e di sentirsi parte di qualcosa. E che dunque li spinge a ricercare altrove, possibilmente vivendo esperienze psicotrope, quel senso di appagamento di cui tanto si sentono privi.
Da qui la pericolosa tendenza. Psicofarmaci e droghe. Anzi, psicofarmaci utilizzati come droghe. Rigorosamente da mixare all’alcol e capaci di cancellare, almeno temporaneamente, quella componente emotiva dalla quale i giovani tanto rifuggono. Cambiano dunque le sostanze, ma non cambiano le dipendenze. Una ricerca spasmodica di quelle sensazioni ed emozioni in grado di alienarli ed estraniarli da ciò che vivono quotidianamente. Una ricerca al mix o alla combo perfetta. Che si traduce in un modo meno costoso e più facile per sballarsi. Difatti, molto spesso i farmaci sono facilmente fruibili perché già presenti nelle abitazioni e quindi accessibili a costo zero. E quel che è più deleterio è che i familiari neppure lontanamente immaginano che possano essere utilizzati in modo non terapeutico. La reperibilità domestica, quindi, crea un incastro micidiale. Come ci insegna la cronaca, letale.
Ed è proprio con questa modalità che le medicine sono ormai entrate da qualche anno nei circuiti giovanili, con l’erroneo convincimento delle nuove generazioni che – trattandosi di sostanze legalmente consentite, seppur dietro prescrizione – siano assimilabili a poco più che una sbornia. Con il fisiologico e conseguente autoconvincimento di poterne modulare e tenere sotto controllo gli effetti.
Con questa lente di ingrandimento, capite bene, come sia di più semplice lettura anche l’episodio consumatosi a Monza. Una vera e propria emergenza che si insinua nelle viscere di coloro i quali rappresentano il futuro. Errori generazionali che, se non debitamente arginati, avranno ripercussioni sempre più incisive. C’è bisogno di più controllo e di più ascolto. Che spinga i giovani al dialogo, piuttosto che alla ricerca di un appagamento tanto artificioso quanto effimero.
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