Gli strumenti della lotta alla mafia vanno rivisti. A dirlo è stato il ministro della Giustizia Andrea Orlando in un’intervista rilascia al quotidiano Il Foglio lo scorso febbraio. “Sono convinto a tal punto che in Italia vi sia un problema urgente legato alla lotta alla mafia da aver convocato da qui a pochi mesi gli stati generali dell’antimafia non solo per fare un punto sullo stato della lotta contro la mafia, ma anche per mettere a fuoco i molti problemi che stanno emergendo nell’antimafia”, ha spiegato il Guardasigilli. Lo scandalo della gestione dei beni confiscati alle mafie è stato l’acceleratore di un processo che doveva già essere completato: rinnovare gli strumenti della lotta alla mafia per colpire la vera fonte del potere criminale. La realtà è che le mafie hanno governato interi zone del Paese per decenni e che la politica per molti anni ha fatto finta che il problema fosse risolto. Oggi invece le mafie continuano a prosperare e a mietere vittime, ogni giorno.
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L’ultimo rapporto della Dia, pubblicato a febbraio 2016, è chiaro. Oggi le mafie ammazzano meno ma disseminano veleni nell’economia dello Stato, inquinando ogni tessuto sociale, dalla quotidianità ai massimi vertici della politica e della finanza. La ‘ndrangheta è una vera “holding mondiale del crimine”; la mafia siciliana continua a insinuarsi negli apparati dello Stato con i suoi colletti bianchi prezzolati; la camorra è rimasta il punto di riferimento di fasce sociali deboli e si pone “come punto di riferimento unitario e alternativo allo Stato”. Dimenticate le immagini da film di boss con la coppola e la lupara. Oggi il mafioso indossa giacca e cravatta, sa usare la tecnologia e sa anticipare i tempi. Il messaggio è sempre lo stesso. Vuoi prendere un criminale? Follow the money, segui i soldi. Per farlo però servono strumenti legislativi e operativi reali. L’Italia, all’avanguardia nella legislazione sulla lotta alla mafia, oggi rischia di mandare in fumo anni di indagini, di processi e di vittorie.
Lotta alla mafia: cosa non va
Lo scandalo che ha coinvolto Elisabetta Saguto, l’ex presidente delle Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, abuso d’ufficio e riciclaggio dalla procura di Caltanissetta, ha mostrato l’anello debole della gestione dei beni confiscati alle mafie. Togliere soldi, immobili e terreni alla criminalità per ridarli alla comunità è il passaggio essenziale per il contrasto alle mafie. Senza soldi e potere i clan non sono nulla; lasciare che la corruzione e il sistema clientelare entri nella gestione aggiunge al danno la beffa.
Gli strumenti legislativi devono essere la vera arma della magistratura. Fare leggi a metà è solo un regalo alle mafie che sguazzano nel caos normativo. L’autoriciclaggio è nato con questo intento ma deve ancora dimostrare di non essere il paravento per il rientro di soldi sporchi; le limitazioni sulle intercettazioni imbavagliano la stampa e azzoppano le indagini sul nascere; lasciare che la riforma della prescrizione galleggi nel limbo aiuta solo i criminali, specie se i processi rimangono lunghi e complessi.
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L’elenco dei problemi della lotta alla mafia è lungo e complesso. Polizia e Carabinieri, al fianco di magistrati coraggiosi, continuano a lavorare senza sosta; poi però i tribunali non hanno i soldi per le fotocopie o le pattuglie della polizia sono ferme perché non c’è benzina. Mentre i mafiosi vantano strumentazioni di ultima generazioni, le forze dell’ordine devono barcamenarsi tra una burocrazia gigantesca e sprechi folli per avere gli strumenti adatti.
La corruzione e la mala politica alimentano le mafie; la povertà e la disoccupazione creano gli eserciti della criminalità, la dispersione scolastica, il mancato inserimento nella società e l’impossibilità di vedere un futuro gettano nelle mani dei boss i più giovani.
Lo Stato italiano ha vinto la prima battaglia contro le mafie. Oggi i giudici, i poliziotti, i giornalisti e i sindacalisti non vengono ammazzati per strada, ma, senza le armi giuste, si rischia di perdere la guerra.
Testimoni e collaboratori di giustizia
Uno dei punti chiave della lotta alle mafie è il ruolo dei collaboratori di giustizia (o pentiti) e dei testimoni di giustizia. È uno dei cardini del sistema ideato da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino all’epoca del maxi processo di Palermo. Senza le loro testimonianze non sarebbe stato possibile inchiodare i boss, svelare i retroscena della criminalità, portare alla luce il sottobosco di politici compiacenti. Senza il coraggio dei testimoni di giustizia, che si sono ribellati al clima di omertà e paura, sarebbe impossibile condannare malavitosi e complici. Eppure, collaboratori e testimoni di giustizia devono fare in conti con uno Stato che fatica a proteggerli, che a volte li abbandona a se stessi, come molti di loro ci hanno raccontato.
Il Fondo vittime delle mafie
A ridosso del 21 marzo, la politica si ricorda del Fondo per le vittime delle mafie. Luigi Di Maio del M5S ha lasciato sulla tomba di Don Peppe Diana una lettera. “Ti hanno ucciso due volte. Non sono stati i camorristi, ma premier, sottosegretari e ministri. Il governo Renzi ha bloccato i fondi per risarcire i familiari delle vittime della mafia”. Dal Partito Democratico sono partiti strali e richieste di dimissioni, con Matteo Renzi che risponde a tono e assicura che non c’è stato alcun taglio. In mezzo la verità, per bocca di Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera. “La vicenda del blocco va risolta con un’assunzione di responsabilità dei politici”.
In pratica, il Fondo è stato bloccato da ottobre 2015 quando il commissario nominato dal ministero degli Interni ha bloccato i pagamenti e chiesto un parere all’avvocatura di Stato sulla “corretta interpretazione da dare alla normativa di settore, in considerazione del fatto che, per le associazioni antimafia, non sono previsti particolari ‘requisiti di affidabilità’ ai fini della legittimazione all’accesso al Fondo, come invece avviene per le associazioni antiracket e antiusura”, come si legge nel resoconto arrivato a febbraio 2016 con la risposta dell’avvocatura di Stato.
C’erano dei “dubbi interpretativi” su come dare quei soldi a chi, come la vedova di Domenico Noviello, imprenditore ucciso nel 2008 dalla camorra, ne ha diritto. Ora, fa sapere il governo, le domande possono essere esaminate. L’episodio chiarisce il vero problema della lotta alle mafie: le mani legate da una mastodontica macchina burocratica, la politica compiacente e collusa, mentre la criminalità approfitta di questo caos per agire indisturbata.
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