La lotta alla criminalità organizzata è una priorità di questo Paese eppure chi la combatte in prima linea è spesso da solo. Il caso di Luigi Bonaventura è indicativo del silenzio da parte delle istituzioni complice e pericoloso. L’ex reggente della cosca Vrenna-Bonaventura del Crotonese dal 2007 è un collaboratore di giustizia e le sue parole hanno portato a sgominare quasi per intero la sua famiglia criminale, oltre a svelare i rapporti di potere e i legami economici su cui si reggono le ‘ndrine. Viene sentito da anni dalle Procure di mezza Italia, da Venezia a Reggio Calabria, eppure è solo, senza protezione da parte di quello Stato al cui fianco sta combattendo la più pericolosa delle battaglie.
Bonaventura e la sua famiglia, la moglie Paola Emmolo, i due figli piccoli e altri quattro familiari, da tre anni non hanno avuto la proroga del contratto di protezione. Dalla Commissione Centrale di Protezione, commissione presieduta dal viceministro degli Interni (oggi Filippo Bubbico), nel 2011, allo scadere del primo contratto di protezione, non è arrivata nessuna risposta e lo stesso Bonaventura ha più volte chiesto di uscire dal programma: avrebbe preferito prendere la capitalizzazione e rifarsi una vita, senza pesare ancora sullo Stato. Avrebbe badato lui alla sicurezza della sua famiglia, pur continuando a collaborare.
A quel punto si crea un blackout: lui chiede di uscire e di avere l’occasione di rifarsi una vita, il Servizio Centrale di Protezione va avanti con il programma
Fino a qualche settimana fa, quando quel programma che avrebbe dovuto proteggerlo, tutelarlo e assisterlo gli è stato definitivamente non prorogato e gli sono stati lasciati soltanto 60 giorni per lasciare l’abitazione; gli si chiede di fare a meno del sussidio senza che però negli anni precedenti si sia fatto qualcosa perché quel sussidio potesse essere non più indispensabile.
Perché il programma viene “non prorogato”? Per una presunta colpa: quella di aver concesso interviste non autorizzate. Autorizzate da chi, viene da chiedere, visto che il contratto è scaduto? Addirittura gli viene negata la buonuscita, quel minimo di soldi per poter impostare una nuova vita.
Il dubbio è che sia una sorta di “ritorsione” nei suoi confronti. Nelle carte si dice che avrebbe concesso “interviste non autorizzate e partecipato a conferenze”: la sua colpa sarebbe quindi di aver parlato e di aver raccontato cosa c’è che non va nel programma di protezione.
Parlare è però il modo per avere i riflettori puntati addosso: essere al centro dell’attenzione dei media svia le pallottole dei ‘ndranghetisti. Bonaventura sa che finché è un personaggio noto, ha meno probabilità di essere colpito. La ‘ndrangheta agisce nell’ombra, si ammanta del silenzio e del buio, non ama spettacolarizzare le azioni criminose: striscia subdola nei rigagnoli dell’illegalità, senza rumore, senza clamore.
Il problema però è a monte. Quel sistema di protezione che dovrebbe proteggere i collaboratori di giustizia ha delle falle che mette a rischio la vita delle stesse persone. Così, il reinserimento sociale va a singhiozzo, le scorte non ci sono, le informazioni sulle località segrete filtrano lo stesso. È successo anche a Bonaventura. Lo ha raccontato lui stesso in qualche intervista concessa negli ultimi tre anni; lo ha fatto anche la moglie Paola. Ne ha parlato a cuore aperto, elencando quello che non va. A viso aperto e senza paura, perché è questo l’aspetto più importante di tutta la vicenda, il coraggio di questa coppia che sta sfidando la ‘ndrangheta, sapendo che può colpirli ovunque.
Quando è stato trovato un “micidiale arsenale della ‘ndrangheta a 200 metri da casa e in un magazzino riconducibile al caposcorta“, come scrive la moglie in una lettera aperta alla stampa (QUI il testo completo della lettera in pdf), o quando hanno ricevuto dei bossoli nella cassetta della posta nella loro ultima abitazione, hanno capito che la situazione stava precipitando.
Le falle che aveva denunciato in più occasione, dall’intervista alle Iene a quella che ha concesso al nostro Fabrizio Capecelatro, stavano mettendo a rischio la vita dei suoi figli. “Come mi è stato promesso, ovunque vado sono un uomo morto”, spiega nel testo della lettera inviata anche a Matteo Renzi e diventata una petizione da oltre 18mila firme. “Come può lo Stato lasciare sola la mia famiglia? Bisogna dimostrare alla ‘ndrangheta, alle mafie, che chi collabora chi denuncia, non è lasciato solo e che lo Stato c’è. La mia famiglia non ha avuto in tutte queste intimidazioni nessun atto di solidarietà dal mondo politico-istituzionale. A noi tocca morire qui, in un luogo a due passi dalla ‘ndrangheta”.
Luigi ha scelto di agire alla luce, con coraggio, a testa alta. Nello stesso periodo, pur senza protezione ufficiale e con carenze di mezzi sempre più evidente, ha continuato a collaborare, a svelare la rete di potere anche politico che si nasconde dietro la ‘ndrangheta. Non si è tirato indietro, ha fatto e continua a fare fino in fondo il suo dovere di cittadino che si è ribellato alla criminalità. Lui che era destinato fin da piccolo a ereditare la cosca, ha detto basta, ha voluto dare un futuro diverso ai figli perché non finissero nelle mani della ‘ndrangheta. Ora lo Stato lo ha lasciato solo.
Bonaventura racconta di aver anche raggiunto un accordo con il Servizio Centrale di protezione per trasferirsi con la famiglia in una località segreta all’estero, ma alla fine, dopo un anno e mezzo, ha capito che anche su questo è stato preso in giro. Senza l’attivazione del programma però non è possibile. Il mancato reinserimento nel tessuto lavorativo non ha permesso loro di avere un lavoro sicuro con cui mettere da parte i soldi; la mancata capitalizzazione del programma li ha lasciati senza un euro e, a breve, anche senza casa.
“Sono stato addestrato da piccolissimo a combattere e se si aggiungono pure questi sei anni al fianco dell’Antimafia sono già 41 anni di guerra, insomma una vita da soldato”, scrive Bonaventura. “Avevo capito poi, che non c’era onore nel rubare il futuro dei propri figli e quindi ho voluto dare ai miei figli una possibilità, quella che io non ho mai avuto, la possibilità di fare nella vita una qualsiasi cosa, dall’operaio al magistrato, al giornalista, all’avvocato, al dottore, all’ingegnere, al poliziotto”.
Per questo, continua a lottare. Lo fa con i suoi mezzi, con gruppi attivi sui social network, con la petizione, la lettera a Renzi; lo fa per salvare la sua famiglia ma anche per lo Stato. Senza uomini e donne come lui la battaglia contro la criminalità rischia di fallire.
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