Luigi Bonaventura, quando il programma di protezione avvantaggia le mafie – INTERVISTA

[videoplatform code=”1418827435459549196ab70184″]

A breve andrà in carcere (forse già domani). E questo è legittimo, perfino giusto, come lui stesso ammette. Era uno ‘ndranghetista, ha commesso dei reati ed è giusto che paghi le sue colpe. Si potrebbe discutere sul fatto che quei delitti è stato lui stesso a riconoscerli quando ha volontariamente deciso di collaborare con la giustizia e non perché era raggiunto da condanne, si potrebbe parlare del fatto che è nato giovane d’onore per successione ereditaria, che è cresciuto come un bambino soldato della mafia, ma probabilmente si entrerebbe in un vicolo cieco da cui diventa difficile uscirne. La certezza della pena rimane, infatti, il principale deterrente a commettere reati e, quindi, deve essere sempre garantita. Sempre però, non solo qualche volta.

Non si può discutere, invece, del diritto che ha Luigi Bonaventura di andare in galera sereno, sapendo che la sua famiglia sarà protetta, tutelata e assistita da quello Stato a cui lui si è affidato quando è diventato, volontariamente (è il caso di ridirlo), collaboratore di giustizia. Rientra, infatti, nel contratto di collaborazione, quel contratto secondo cui lui si impegnava a dire tutto quanto sapeva sull’organizzazione criminale da cui proveniva e quindi aiutare la lotta alla ‘ndrangheta in cambio di protezione, tutela e assistenza, appunto (Scopri cosa prevede il programma di protezione).

Una protezione, una tutela ed un’assistenza che Bonaventura e molti altri collaboratori non hanno sempre riscontrato (Leggi qui la prima intervista a Luigi Bonaventura, quella a Giuseppe Misso). Anzi chi doveva proteggerlo addirittura alle volte era colluso, come l’ispettore di Polizia che lo scortava agli interrogatori e che poi, tramite la moglie, era titolare di un magazzino in cui la stessa ‘ndrangheta nascondeva le armi.

E allora il sospetto è che non gli abbiano dato quello che il contratto di collaborazione prevede perché non volevano che lui desse quello che era tenuto a dare: la verità. La verità sulla ‘ndrangheta e sui suoi rapporti con la politica, con l’imprenditoria e forse perfino con le istituzioni. Il sospetto è che abbiano negato a Bonaventura la tutela, l’assistenza e la protezione necessaria perché lui potesse svolgere serenamente il proprio ruolo di collaboratore di giustizia, di informatore delle procure.

Un sospetto aggravato dalla non proroga, tre anni dopo la scadenza, del programma di protezione per aver concesso interviste non autorizzate, interviste volte proprio a denunciare il malfunzionamento di quel programma, oltre che tutelarsi mantenendosi sotto i riflettori (e sotto i riflettori, si sa, la ‘ndrangheta non spara). Ancora una volta una verità che non deve uscire, che non bisogna far sapere, che non bisogna denunciare.

Ma ogni volta che una verità non viene detta e che chi vuole dirla viene messo a tacere è una vittoria per le mafie e una sconfitta per lo Stato.

LEGGI ANCHE:
Paola Emmolo: “Non ho il diritto di essere una mamma normale”
L’opinione di Giovanni Falcone

Impostazioni privacy