La giustizia sportiva, che ieri ha accolto il ricorso della Juventus per la squalifica della curva per la partita (importantissima) contro il Napoli, involato a vincere il terzo scudetto della sua storia, oggi ha deciso di sbattere le porte in faccia all’Inter, che contro la squadra di Massimiliano Allegri, a San Siro, con una finale di Coppa Italia ancora da giocarsi, dovrà rinunciare a Romelu Lukaku. L’attaccante nerazzurro, autore del pareggio su rigore nella sfida di andata allo Stadium, aveva esultato secondo l’arbitro della gara in maniera polemica con i tifosi avversari e per questo aveva ricevuto un secondo giallo, e quindi un’espulsione, che è stata confermata dalla Corte sportiva d’Appello che ha respinto il ricorso del club milanese.
Una decisione che sembra piuttosto strana, e forse non troppo a passo con i tempi che si stanno vivendo. Subito dopo, infatti, si era capito che quell’esultanza con il dito davanti alla bocca, che tra l’altro aveva già fatto anche dopo un gol con la maglia del suo Belgio pochi giorni prima, era un modo per zittire i cori razzisti della curva della Vecchia Signora, che appunto, non ha ricevuto lo stesso trattamento rispetto al bomber con il numero 90 dell’Inter.
Da vittima, a cui in molti avevano dimostrato la vicinanza, compresa la sua società e il ministro per lo Sport, Andrea Abodi, passando per la Lega Serie A, la Figc e tutti i vertici delle istituzioni calcistiche, compresa la sua agenzia, che anche oggi ha espresso la comprensione per il proprio assistito, Lukaku si è trasformato in colpevole, meglio nell’unico colpevole, hanno precisato dall’Inter, perché l’attaccante, nei fatti, è stato l’unico a essere condannato (ingiustamente).
Nonostante i responsabili dei cori siano stati individuati e daspati, infatti, il numero 90 della squadra di Simone Inzaghi non potrà essere in campo per il ritorno importantissimo della semifinale contro i bianconeri di mercoledì, mentre loro, a cui ieri sono stati resi i punti di penalizzazione che a gennaio la Corte federale d’appello aveva cancellato perché aveva ritenuto il club e i suoi dirigenti colpevoli per il sistema delle plusvalenze, e che ora sono tornati terzi in classifica, potranno giocare la loro gara contro i partenopei di Luciano Spalletti con l’apporto di tutti, in campionato.
E questo è sbagliato, nonostante non sia la prima volta che succede, perché zittire i cori e gli insulti non dovrebbe valere un’ammonizione, e dovrebbe essere un alibi importante perché l’errore commesso a caldo si possa trasformare in qualcosa di diverso. A poco servono, infatti, le parole di vicinanza, dimostrate a più latitudini dicevamo, a poco servono le campagne promozionali per dire no al razzismo se poi non si può andare oltre una giustizia sportiva che, ora più che mai, non ci sta facendo capire in che direzione vuole andare, e quindi se dalla parte di chi sbaglia, o dalla parte di chi deve essere protetto.
Non servono processi lunghi, in questo caso, non serve essere juventini, interisti, o di qualsiasi altra squadra possa farci battere il cuore per capire che colpire chi già è stato colpito, ferito sia qualcosa che va contro ogni logica. Si dovevano fare annunci, e nessuno lo ha segnalato, è vero, ed è per questo che la curva della Juventus rimarrà aperta, si doveva evitare di far continuare un comportamento non degno di esseri umani, ma si doveva, alla stessa maniera, dare la possibilità a chi si è sentito offeso, a chi lo è stato, di rispondere nella maniera che riteneva più lecita, anche e soprattutto quella di polemizzare con chi aveva attaccato lui personalmente.
Un doppio errore, ancora, che hanno commesso dalla Lega, che non ha sentito quei cori, e non ha dimostrato nei fatti che quegli insulti davvero Lukaku non meritava di avere. Un po’ come se ci fossero due pesi e due misure, un po’ come se si giustificasse chi fa il razzista, e si punisse solo chi quel razzismo lo subisce, e probabilmente continuerà a subirlo se non si danno segnali di vera apertura che vanno oltre gli slogan.
Quello che è successo, poi, tra ieri e oggi, e iniziato mercoledì quando il Collegio di garanzia del Coni si è riunito in camera di consiglio per decidere se confermare o meno i punti di penalizzazione alla Juventus, forse non fa parte di questo, quantomeno, però, fa da contraltare rispetto a quello che, invece, le squadre italiane hanno dimostrato in Europa in questi ultimi tre giorni. L’unica italiana a essere uscita da una competizione Uefa è anche l’unica che ha dovuto affrontare una sua compagna del campionato (e poco importa che siano proprio i primi della classe del Napoli, in questo caso), le altre hanno continuato la loro corsa, e per certo almeno una di loro si giocherà una finale, e sarà quella di Champions League.
Ecco, quanto alla coppa dalle grandi orecchie, questa non certezza della pena, che poi si basa su regole scritte che poco si sposano con quello che sta succedendo per davvero, perché non regolamentano nessuna fattispecie di reato, ha anche inquinato la nostra Serie A, il nostro calcio, che merita di essere dove è collocato ora con l’Inter e il Milan che si giocheranno un derby, dopo vent’anni, che vuol dire un sogno, con gli stessi bianconeri a cui basterà (ma non è semplice) superare il Siviglia per arrivare a un’altra finale, magari contro la Roma di José Mourinho, e poi c’è la Fiorentina, una Cenerentola, fino a qualche tempo fa in campionato, ora diventata una farfalla pronta a tenere alta la bandiera tricolore in Europa.
Ha inquinato una classifica in cui prendere le misure è diventato impossibile, e in cui a farne le spese sono un po’ tutte, dalle milanesi semifinaliste di Champions League che l’anno prossimo potrebbero essere escluse perché potrebbero non arrivare al terzo o quarto posto, e anche alla Juventus, che ora è terza ma poi chissà, i giallorossi, persino la Lazio di Maurizio Sarri che ora sta sopra, ma la distanza con la squadra di Allegri è davvero irrisoria, anche se non ci sono più competizioni extra campionato ad affaticare gli uomini del toscano.
E di questo, e non di Lukaku, che ha parlato il ministro del governo di Giorgia Meloni, oggi. “Non voglio entrare nel merito delle sentenze, ma nel metodo perché questa precarietà non aiuta. Farò la mia parte, nel ruolo che mi è stato affidato e di concerto con altri colleghi di governo, per una riforma della giustizia sportiva che garantisca a tutti i portatori di interesse, atleti, dirigenti, tecnici, tifosi, media e opinione pubblica, di comprendere le decisioni che vengono prese e di fare in modo che il processo sia non solo più snello, tempestivo e trasparente possibile, ma si svolga nei tempi e nei modi affinché non venga compromessa la credibilità e la regolarità della competizione sportiva nella sua interezza“, ha iniziato Abodi.
“È evidente – ha spiegato ancora – che abbiamo bisogno della certezza del diritto, chi sbaglia deve pagare, ma il modo con il quale si accerta la responsabilità e si arriva alla decisione finale deve tenere conto degli interessi generali e della comprensibilità delle decisioni della quale l’opinione pubblica ha diritto. Senza trasformare la giustizia in una partita di calcio, come purtroppo è successo nel 2006 e sta succedendo anche adesso”. Il suo interesse, poi ha concluso, è quello di avere “una giustizia giusta, che sia certa in coerenza con i principi dell’ordinamento giuridico-sportivo e rispettosa dei tempi dello sport, che sia intellegibile anche per i non addetti ai lavori, nella più assoluta indipendenza, quindi anche nella responsabilizzazione di tutti gli attori in campo”.
E quindi, qual è la giustizia giusta se un giocatore che è stato offeso per il colore della sua pelle deve scontare un turno di squalifica, anche in una partita importante, solo perché si è ribellato a chi lo insultava? Forse anche a questa domanda dovrebbe rispondere il ministro, e con lui tutta la giustizia sportiva che oggi più di ieri ci ha dimostrato che le parole contano nulla se non si passa ai fatti, e non basta neanche colpirne uno, come nel caso dei tifosi, per educarne cento, perché gli altri 99 spereranno sempre di farla franca, come succede la maggior parte delle volte.
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