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Cronaca

L’ultima notte di Vera e quel suicidio a cui è impossibile credere

Sono ormai anni che mi occupo di violenza contro le donne e che mi batto in prima linea per promuovere una campagna di informazione e prevenzione. Purtroppo, però non è mai abbastanza. Non è mai abbastanza perché il bollettino di guerra è devastante: una donna viene uccisa con cadenza quasi quotidiana. E viene uccisa di fronte all’impotenza di amici, familiari e dello Stato. Non c’è codice rosso che tenga.

Vera Schiopu – Nanopress.it

Sembrano realtà distanti da noi, talmente distanti che molte donne allontanano la prospettiva della violenza che sono abituate a subire dentro e fuori le mura domestiche. Spesso, infatti, non si tratta di violenza fisica ma della più subdola violenza psicologica. Quella che non lascia lividi. Quella che può celarsi dietro un sorriso, un’uscita di gruppo o una cena di famiglia. Quella che molte donne non confessano per paura, vergogna o per impossibilità – spesso economica – di ripartire da zero. La stessa che, però, molto spesso, viene sottovalutata. E può rivelarsi letale.

Nel sottobosco criminale, dove si intrecciano le emozioni più profonde e gli istinti più primordiali, emergono storie sempre più scioccanti. Come quella di Vera Schiopu, la ragazza di venticinque anni trovata impiccata nelle campagne tra Ramacca e Paternò in piena terra siciliana. Secondo chi indaga nell’ennesimo fatto di sangue con vittima una donna non si tratterebbe di suicidio. Per questo, dietro la spinta della Procura di Caltagirone competente ad indagare, il Gip ha convalidato il fermo nella giornata di ieri di due uomini: Gheorghe Ciprian Apetreim, manovale romeno e compagno della giovane, e Costel Balan, un collega connazionale. Il reato per cui si procede nei confronti dei due uomini è quello di omicidio volontario. Entrambi sono indagati in concorso.

Ma mentre il fidanzato di Vera, Gheorghe, si è avvalso della facoltà di non rispondere, il collega manovale ha sottolineato la propria estraneità ai fatti e fornito una propria versione degli eventi. Quest’ultimo ha infatti raccontato che Vera e Gheorghe facevano spesso uso di alcool e che sarebbero stati ubriachi anche la sera in cui Vera ha perso la vita. In quella circostanza, sempre secondo quanto dichiarato da Costel Balan durante l’interrogatorio, nel pomeriggio di sabato Gheorghe avrebbe vagato per le campagne in cerca di Vera dopo che i due si erano persi di vista a seguito di una lite. L’avrebbe pertanto trovata impiccata in un casolare in piena campagna. Una ricostruzione, però, non ritenuta affidabile dalla procura titolare delle indagini.

Da tale angolo di visuale, per gli inquirenti, ci troviamo di fronte ad una messa in scena finalizzata a dissimulare l’omicidio. L’infinitesimo di questo 2023, che non smette di dare una fotografia di un fenomeno che mai è apparso così nero. Un terreno sempre più oscuro e complesso. Quasi da sembrare inesplorato. Quello dell’animo umano.

Secondo la ricostruzione, Vera non si sarebbe impiccata nelle campagne catanesi dove è stata ritrovata, ma sarebbe stata uccisa altrove.

Il luogo del ritrovamento – Nanopress.it

E poi sarebbe stata portata proprio nella zona tra Ramacca e Paternò dal compagno e dall’amico connazionale, che gli investigatori credono aver agito in concorso. Il tentativo ovviamente era quello di simulare il suicidio della giovane e depistare la successiva attività investigativa.

Che cosa spinge un uomo ad uccidere la compagna e a simulare un suicidio?

Negli ultimi tempi quel che appare dalle pagine di cronaca è una preoccupante evoluzione del modus operandi degli uomini che decidono di privare la vita delle loro partner o ex partner. In questo senso, come per i serial killer, anche il modus operandi di questi soggetti sembra evolversi e perfezionarsi.

L’ultima frontiera della violenza di genere, almeno per quel che ci mostrano i fatti di questi giorni, è quella della simulazione dell’estremo gesto autolesionistico della vittima. Nel panorama criminologico, l’uccisione di una donna seguita dalla simulazione del suicidio rappresenta uno dei peggiori crimini, intrecciando elementi di crudeltà, manipolazione e disumanità. Da un punto di vista tecnico, quindi, esplorare le ragioni che guidano un uomo a compiere un tale atto ci sfida a sondare le profondità delle emozioni e dei comportamenti devianti.

Come di consueto, uno dei fattori chiave nell’analisi di questi casi è il concetto di potere e controllo. Gli assassini che adottano questa “strategia” spesso cercano anzitutto di esercitare un dominio completo sulla vittima, trasformandola in un oggetto di manipolazione. Questo desiderio di controllo può scaturire da insicurezze personali, complessi di inferiorità o da una volontà di confermare una percezione distorta di sé come individui inarrivabili. Chiaramente, si tratta di soggetti caratterizzati dalla presenza di un disturbo di personalità di matrice narcisistica.

Che cosa alberga nella mente di chi si macchia di un così terribile crimine?

Al centro di simili orrori si trova un intricato labirinto di gelosia, bisogno di controllo e desiderio di possesso. Gli aggressori, spinti dalla paura di perdere il dominio, scivolano in un abisso di violenza, convinti che un atto estremo sia l’unico modo per ristabilirlo. La gelosia tossica e patologica, alimentata da paure profonde e insicurezze, si traforma in un fuoco distruttivo che brucia tutto ciò che si trova sulla sua strada.

Dunque, anche nel caso di Gheorghe Ciprian Apetreim, abbiamo verosimilmente a che fare – se le sue responsabilità verranno confermate –  con un individuo totalmente egoriferito ed incapace di provare empatia e compassione per il prossimo. Per questo simulare il suicidio della partner o ex partner costituisce un estremo tentativo dell’assassino di mantenere il controllo e l’immagine idealizzata di sé stesso.

In termini concreti, serve a distorcere la percezione dell’evento. E ciò sia con riferimento a chi dovrà giudicare i fatti sia con riguardo all’opinione pubblica. L’obiettivo è creare confusione e far convergere le indagini verso una conclusione erronea. In primo luogo, per spirito auto conservativo. Così facendo, chi uccide pensa di poter depistare gli investigatori e fuggire al giudizio della legge. Questa mossa è spesso sostenuta da una convinzione irrazionale di poter eludere la giustizia a lungo termine. Inoltre, come accennavo, si tratta anche di un tentativo dell’offender di spostare il focus sulla persona che si è tolta la vita. Quando in realtà, quella stessa vittima, vista come una minaccia all’identità personale, diventa un bersaglio della rabbia accumulata dell’assassino stesso. Si fa così strada la volontà di addebitarle ogni responsabilità per i propri fallimenti personali. Quante Vera dovranno ancora morire perché si plachi questa ondata sanguinaria?

Anna Vagli

Giurista, Criminologa Investigativa, Scrittrice, Giornalista-Pubblicista, Esperta in Scienze Forensi, Psicologia Investigativa, Sopralluogo Tecnico sulla Scena del Crimine e Criminal Profiling. Certificata come Esperta in Neuroscienze Cognitive Applicate e come Analista Comportamentale Editorialista di crimine per Nanopress. Direttore scientifico Master in Criminologia in partnership con Studio Cataldi e Formazione Giuridica e docente Sole 24 h business school. Opinionista tv programmi Rai, Mediaset, Warner Bros Discovery Italia ed opinionista radiofonica per Rai Radio2 e Radio Capital.

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