I giudici della Suprema Corte hanno riconosciuto nel sistema instaurato a Roma, chiamato comunemente Mafia Capitale, l’incontro di diverse associazioni di semplici criminali, ma non l’associazione mafiosa. Corruttori, sì. Criminali, sì. Ma non mafiosi. Lo ha stabilito, con sentenza definitiva, la Cassazione, sesta sezione penale presieduta da Giorgio Fidelbo dopo una lunghissima riflessione in Camera di Consiglio. Si scrive così l’ultimo atto del romanzo criminale di Buzzi e Carminati, in attesa del processo d’appello bis, per Salvatore Buzzi e Massimo Carminati e altri imputati, per il ricalcolo delle pene alla luce della declassazione del reato in associazione a delinquere semplice.
Il reato di associazione mafiosa era già stato contestato in primo grado ma venne riconosciuto in Appello, portando le condanne a 14 anni e mezzo per Carminati e 18 anni e 4 mesi per Buzzi. A quasi cinque anni dall’operazione che, con due retate, il 2 dicembre 2014 e il 4 giugno 2015, ha portato all’arresto rispettivamente di 37 e 44 persone, gli ermellini della Corte di Cassazione hanno ribaltato quanto era stato messo nero su bianco nel processo d’appello: ovvero che a Roma 8 anni fa, si creò un’associazione di stampo mafioso, romana e con caratteri suoi propri e originali rispetto alle altre organizzazioni mafiose. Per i giudici della Cassazione infatti Buzzi e Carminati erano i registi di un doppio sistema di corruzione che in qualche modo contaminava la città, ma senza l’aggravante prevista dal 416 bis.
Un’organizzazione capace di mettere le mani, con la complicità di politici e funzionari, sugli appalti pubblici, ma che non esercitava quella violenza, quella intimidazione che caratterizza le organizzazioni criminali punite con l’articolo 416 bis.
La data di nascita di questa mafia romana sempre essere il 14 settembre 2011, quando un incontro, in un bar all’Eur, tra Massimo Carminati e Salvatore Buzzi ha generato un sodalizio che puntava a far eleggere e collocare soggetti affidabili in posti chiave del Campidoglio. In quella occasione, dove non è riuscito il compromesso storico è riuscito il malaffare. La volontà di governare i traffici illeciti di Roma ha portato alla creazione di un particolare Patto Molotov-Ribbentrop (il Trattato di non aggressione fra il Regime nazista e l’URSS con l’obiettivo di spartirsi la Polonia) grazie all’unione del potere sul territorio esercitato dall’ex estremista neofascista Massimo Carminati al sistema di influenze praticato dal capo delle cooperative rosse Salvatore Buzzi.
Il procuratore Pignatone la definì a suo tempo una piccola mafia, ovvero: un’associazione di tipo mafioso di nuova formazione, di piccole dimensioni e operante in ambito limitato, che peraltro “ha cessato la sua operatività con gli arresti effettuati il 2 dicembre 2014”. Oggi sappiamo che non ne aveva, ancora, sviluppato le capacità mafiose.
Come spiega Alfonso Sabella, magistrato, sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo di Gian Carlo Caselli ed ex Assessore alla legalità del Comune di Roma, la Cassazione ha certificato che la città è stata oggetto di criminali che hanno piegato la politica ai loro interessi. Roma non è mafiosa, ma le mafie ci sono: le condanne ai Fasciani, agli Spada, ai Casamonica lo testimoniano. In effetti nella scorsa primavera la Cassazione ha stabilito che quella esercitata dal clan dei Casamonica è mafia, così come stabilito anche al termine del processo bis per il clan Fasciani di Ostia. Roma è infatti il crocevia di tante mafie: secondo le relazioni della Direzione investigativa antimafia a Roma e nel suo hinterland sono presenti tutte le principali mafie del meridione (cosa nostra, stidda, camorra, sacra corona unita e soprattutto ‘ndangheta). Ma preoccupa anche la presenza sempre più massiccia di diverse mafie etniche: in particolare cinesi, rumene, albanesi, russe.
Il mondo di mezzo in cui si muovevano Buzzi e Carminati invece “trovò il terreno favorevole nei comportamenti dei funzionari e politici corrotti o compiacenti, e fu attuato perché le cooperative di Buzzi che avrebbero dovuto perseguire lo scopo mutualistico e offrire alla comunità e agli utenti servizi adeguati, furono invece strumentalizzate per il perseguimento di fini illeciti”. Il disegno che sembra tracciare la sentenza non sembra essere un autoassoluzione per la Capitale: dalla decisione dei giudici sembra trasparire che non ci fu bisogno di molta intimidazione, il sistema era in molti casi compiacente. In quest’ottica si muove anche la sindaca Virginia Raggi che ha seguito l’udienza ed ha commentato nelle scorse ore: “Questa sentenza conferma comunque il sodalizio criminale. È stato scritto un capitolo molto buio della storia nostra città. Stiamo lavorando insieme ai romani per risorgere dalle macerie che ci hanno lasciato, seguendo un percorso di legalità e rispetto dei diritti. Andiamo avanti a testa alta”.
Al vaglio della sesta sezione penale c’era la posizione di 32 imputati, di cui 17 condannati dalla Corte d’Appello di Roma, lo scorso anno, a vario titolo per mafia (per associazione a delinquere di stampo mafioso, o con l’aggravante mafiosa o, ancora, per concorso esterno). Molti degli imputati facevano parte del cosiddetto mondo di sopra, dalle realtà politiche ed imprenditoriali necessarie allo sviluppo del progetto di espansione dell’organizzazione criminale. A spiegare il rapporto con questi soggetti è lo stesso Carminati in un’intercettazione: “Questi consiglieri comunali devono sta’ ai nostri ordini. Ma perché io devo sta’ agli ordini tuoi? Te pago, ma vaffa…“.
Il colore politico poco importava e le vecchie ideologie venivano sacrificate sull’altare dell’interesse. Lo stesso Buzzi in un’altra intercettazione spiega l’interesse bipartisan: “Lui (Marino, ndr) se resta sindaco altri tre anni e mezzo col mio amico capogruppo se magnamo Roma” mentre “Se vinceva Alemanno ce l’avevamo tutti comprati, partivamo… fiuuuuuu!“. Nel processo di appello fu delineato questo meccanismo perfetto, ovvero “il vantaggio che derivò a Carminati dall’unirsi a Buzzi fu quello di partecipare agli utili delle cooperative ottenendo denaro pulito non riconducibile alla sua persona; il vantaggio di Buzzi fu quello di giovarsi della forza di intimidazione di Carminati e dei favori di Testa, Pucci e Gramazio (dirigenti e politici condannati anch’essi per associazione mafiosa, ndr) e di coloro che governavano il Comune di Roma e gli enti partecipanti dal Comune stesso”. La corruzione diventò sistema, sotto la forma di “contributi elettorali, e l’intimidazione e l’omertà: il modus operandi. Il Ras delle Coop e il Cecato avevano un piano ben chiaro: il politico a Roma “o si caccia o si compra“, rivisitazione capitolina del plata o plomo caro a Pablo Escobar. E l’opposizione al sistema era vista come fumo negli occhi: tanto infatti era il fastidio e la preoccupazione per il lavoro di denuncia del consigliere radicale eletto nella “Lista Marino” Riccardo Magi che aveva già “fatto saltare il marchettificio” o l’ascesa nei sondaggi del Movimento 5 stelle.
Questo perché la “maggior parte dei funzionari e dei politici che avevano responsabilità nell’Amministrazione comunale non denunciarono gli atti amministrativi illegittimi e i reati commessi nelle turbative di gara, né reagirono, se non in pochi e in modo incompleto e insoddisfacente, alla prassi irregolare degli appalti pubblici”. Alla luce delle sentenza di ieri, per otto imputati le condanne diventano definitive, per altri quattordici (tra cui gli stessi Carminati, Buzzi, il presunto braccio destro Riccardo Brugia e l’ex capogruppo del Pdl in Comune Luca Gramazio, condannati rispettivamente a 14, 18, 11 e 8 anni di carcere), proprio in virtù dell’accusa caduta, le pene sono da ridefinire in Appello in relazione all’associazione a delinquere semplice.
Per quanto riguarda l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, condannato in primo grado a 6 anni di carcere per corruzione e finanziamento illecito nell’ambito di uno dei processi legati a Mafia Capitale, era stata già archiviata l’accusa di associazione mafiosa. Alemanno, che ha già annunciato il ricorso in appello, è stato tirato in ballo dai magistrati per dei pagamenti illeciti a delle fondazioni vicine tramite l’intermediazione dell’ex amministratore dell’azienda romana dei rifiuti (Ama), Franco Panzironi, suo stretto collaboratore. Per quest’ultimo, con la sentenza di ieri, è migliorata la situazione: condannato in appello a 8 anni e 7 mesi, la procura generale ha chiesto la conferma della pena ma con riqualificazione del reato, da concorso esterno alla partecipazione piena all’associazione mafiosa. Che però per la Suprema corte a Roma non esisteva. I giudici hanno anche rigettato i ricorsi per i politici Mirko Coratti, ex presidente dell’Assemblea capitolina del Pd (confermata la sentenza d’Appello, 4 anni e 6 mesi per corruzione), il consigliere comunale Pdl Giordano Tredicine (condannato in appello a 2 anni e 6 mesi), l’ex presidente del Municipio di Ostia, Andrea Tassone (5 anni in appello), l’ex assessore della giunta Marino aveva optato per l’abbreviato, Daniele Ozzimo (2 anni e 2 mesi per corruzione) oppure l’ex capo della polizia provinciale Luca Odevaine che ha patteggiato a 5 anni e due mesi per accuse diverse.
Per molti di questi, attualmente liberi o ai domiciliari, anche alla luce delle nuove norme come la legge “spazzacorrotti”, si apriranno le porte del carcere e potranno raggiungere i loro sodali del “mondo di sotto”. Per tutti però il destino poteva essere chiaro in anticipo se avessero dato ascolto ad una massima nota del “romanzo criminale” della Città Eterna ovvero che “Roma nun vo padroni.. de Re ce n’ ha già avuti 7 e hanno fatto tutti ‘na brutta fine“.
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