Domenica 23 ottobre una folla di persone si è ritrovata, benché fossero soltanto le sei del mattino, al cimitero di Platì, in provincia di Reggio Calabria, per le esequie di Giuseppe Barbaro, morto in carcere dove era detenuto con l’accusa di essere uno ‘ndranghetista. Fra quelle persone c’era anche Giuseppe Svanera, Parrocco di Platì e – ahinoi – non sembrerebbe nulla di strano: siamo oramai abituati a situazioni pubbliche, in primis le processioni, in cui risulta evidente la commistione fra Chiesa e mafie.
Poco importa che per Barbaro, come sempre si fa da qualche tempo a questa parte nella Locride per i boss della criminalità organizzata, il Questore di Reggio Calabria, Raffaele Grassi, avesse vietato i funerali pubblici. Don Giuseppe ha, infatti, spiegato: «Sono convintissimo che ogni persona, indipendentemente dal gruppo a cui appartenga, abbia diritto a una degna sepoltura secondo la fede che professa. Barbaro era cattolico, battezzato e sposato. Poi, non era stato neanche condannato per crimini precisi, ma per associazione mafiosa».
Insomma – secondo il sacerdote – il reato commesso da Barbaro, ovvero quello di essere uno ‘ndranghetista, non era poi così grave…e questo la dice lunga su quale sia la posizione della Chiesa, o almeno di parte di essa, rispetto alla mafia. Ne parlo con Salvo Ognibene fondatore di www.eucaristiamafiosa.it e autore, insieme a Rosaria Cascio, del libro “Il primo martire di mafia – L’eredità di padre Pino Puglisi”, appena uscito in libreria per le Edizioni Dehoniane.
La scomunica che Papa Francesco rivolse ai mafiosi nella piana di Sibari nel giugno del 2014 è stata recepita dal territorio?
Dal famoso funerale dei Casamonica fino al funerale di Barbaro, passando per i due sposi che sono arrivati nel giorno delle nozze al centro di Nicotera in elicottero, sono molti gli episodi che dimostrano il contrario.
La verità è che i parroci sono allo sbando e non ci siano direttive, ma soprattutto le giustificazioni che vengono date dai vertici della Chiesa sono sempre le stesse: ovvero che, dopo la morte di Don Pino Puglisi e soprattutto con la sua beatificazione, la Chiesa ha messo un punto definitivo nel rapporto con la mafia.
Anche in quest’ultima occasione il Presidente della Conferenza Episcopale Calabra, Monsignor Vincenzo Bertolone ha, infatti, dichiarato: «L’assassinio di padre Pino Puglisi e la sua beatificazione hanno fatto piazza pulita di vecchi equivoci, per i quali spesso e volentieri, nonostante le indicazioni del Magistero e contrariamente al dettato evangelico, veniva tollerato che strutture di peccato come le mafie trovassero una certa comprensione da parte della Chiesa».
Bè ma effettivamente la figura di Don Pino Puglisi ha rappresentato un “anno zero” per i rapporti tra Chiesa e mafia…
La beatificazione di Don Puglisi è sicuramente un fatto storico e, tra l’altro, pone la figura di Puglisi come un esempio della Chiesa cristiana. Se tutti dobbiamo, quindi, prendere padre Puglisi come buon esempio, perché questo non avviene nella pratica? La paura è che oggi venga, piuttosto, usato come un’immaginetta per giustificare alcuni misfatti.
Certo, nel corso degli anni la Chiesa ha fatto dei passi da giganti nei confronti del fenomeno mafioso, per fortuna direi. Con Papa Francesco abbiamo tolto ogni imbarazzo però abbiamo una storia da raccontare che è fatta di molte più anime.
Il rapporto tra mafie e Chiesa è, quindi, un problema periferico, dovuto al rapporto fra la singola parrocchia e il relativo clan, o credi ci sia una connivenza a livello strutturale?
Sicuramente continua a esserci nelle periferie: ci sono ancora dei territori in Italia dove le mafie continuano a essere molto influenti e influenzano anche la Chiesa.
Ma il vero problema è che all’interno della Chiesa non c’è ancora una presa di coscienza importante: i parroci non hanno forti indicazioni e in alcuni casi non sanno come comportarsi.
Magari i vescovi non hanno contezza di quello che succede nelle loro diocesi perché mancano commissioni di studio sul fenomeno nel territorio che possano offrire soluzioni mirate. Manca anche un rapporto di collaborazione con le forze di Polizia.
La grande sfida di oggi è proprio questa: Don Puglisi venne ucciso perché era un prete che non stava all’interno della sua chiesa ma usciva, stava sul sagrato, andava nelle case ed è proprio quello che oggi la Chiesa dovrebbe fare e ciò verso cui sta spingendo Papa Francesco.
E’ questa, quindi, l’eredità di padre Puglisi?
L’eredità non sta nelle cose ma negli insegnamenti e poi questi non possono cadere nel dimenticatoio. Padre Puglisi ci lascia un’eredità a 360 gradi. La lascia innanzitutto a Palermo e alla Sicilia, per quello che ha fatto e per le persone che oggi sono testimoni e portano in giro il suo messaggio come Rosaria Cascio.
Puglisi, però, rappresenta un esempio per tutta la chiesa cattolica in Italia e non solo: nel libro abbiamo cercato di offrire anche degli spunti di riflessione sul rapporto tra chiesa e mafia partendo proprio dalle attività del parroco di Brancaccio.
Nel libro, però, raccontiamo anche di una rivoluzione interrotta, perché molti dei ragazzi a cui lui si rivolgeva entrano ed escono dal carcere. Ci sono storie esemplari come quella di Giuseppe Carini (testimone di giustizia fondamentale nel processo contro i Graviano, NdR) e tante altre, ma sono tante anche le storie finite male.
Purtroppo Don Pino Puglisi è rimasto a Brancaccio soli 3 anni, troppo poco, e dopo di lui è arrivato un prete che non aveva nulla in comune con la sua impostazione e che successivamente andò a fare da consulente a Salvatore Cuffaro alla Regione Sicilia.
Articolo realizzato in collaborazione con Lorena Cacace
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