Malinverno di Domenico Dara è un libro bello, ironico e malinconico, amaro nel descrivere la vita e la morte con un realismo quasi magico e poetico nel tratteggiare i sogni perduti o infranti.
Il protagonista, Astolfo Malinverno, vive a Timpamara, paesino che, per la presenza di una antica cartiera cui nel tempo è stato affiancato un maceratoio, si trova legato a doppio filo con la letteratura mondiale.
Qui, quando il vento soffia, le pagine destinate al macero vengono trasportate per i vicoli e le stradine e gli abitanti iniziano a leggere battute dell’Amleto, capitoli della Ricerca del tempo perduto, qualunque cosa il vento porti loro.
E allora tutti iniziano a chiamare i propri figli con i nomi di autori o personaggi dei romanzi, e i nomi variano in base alla provenienza dei libri portati al macero.
Quando arrivarono i camion di una fallita libreria specializzata in spartiti musicali, a Timpamara ci fu un fiorire di Valchiria, Brunilde, Armida, Otello, Desdemona, mentre la bancarotta e il conseguente macero di una casa editrice di atlanti geografici provocarono un’ondata di Adelaide, Ginevra, Gorizia, Loira, Galizia, Cracovia, Lisbona.
In mezzo a tanti Agamennone, il nome Astolfo sembra quasi banale e si rischia di dimenticare che è stato proprio Astolfo, in sella all’ippogrifo, ad andare sulla Luna per recuperare il senno perduto di Orlando, una volta divenuto Furioso.
Mi chiamo Astolfo Malinverno. In qualunque altro paese del mondo sarebbe un nome memorabile, stravagante, di quelli che quando lo pronunci in classe i compagni si mettono a ridere, ma per fortuna attecchii a Timpamara, nel posto giusto, a conferma che con le nascite si compiono profezie di giustezza.
Malinverno fa il bibliotecario e ha il pallino di riscrivere i finali delle opere quando la loro conclusione non soddisfa i suoi standard: il protagonista deve avere una fine tragica, altrimenti l’opera non può considerarsi conclusa.
A questo impiego, in cui sembra esaurirsi tutta la sua vita, Astolfo è quasi costretto ad affiancare quello di custode del cimitero e così, tra improvvisazione e buonsenso, lo troviamo a spazzare i viali e pulire le lapidi, presenziare ai funerali e spolverare le foto dei defunti.
Ma è pur sempre un bibliotecario e non sorprende che abbia ricavato in un angolo appartato del cimitero un luogo in cui seppellire i libri (con tanto di necrologio pubblicato sul giornale locale).
La vita di Malinverno sarà stravolta da una foto posta su una lapide senza nome: una donna bellissima e dallo sguardo malinconico che ad Astolfo sembra uscita dal romanzo Madame Bovary.
Decide di chiamarla Emma e così la chiamerà per tutto il tempo in cui cercherà di scoprire la sua vera identità.
Un giorno realtà (perché Astolfo si è innamorato davvero di Emma) e immaginazione si sovrappongono: davanti alla lapide senza nome staziona una donna che è la copia esatta di Emma. E Astolfo, che dell’amore ha un’idea vaga, sperimenta finalmente tutto quello che il destino gli aveva negato.
Malinverno è un romanzo che incanta. Non si può non amare il protagonista, Astolfo Malinverno, che porta nel nome il coraggio dell’eroe ariostesco e nel cognome una traccia di malinconia, delle cose destinate a finire, a morire.
Ne seguiamo le vicende quasi con apprensione, lo vediamo innamorarsi, indagare e sorprendersi, illudersi e credere di essersi illuso.
È bello il modo in cui Malinverno vede le persone, la grazia che riesce a leggere nei gesti degli altri, la poesia che riesce a cogliere negli sguardi degli altri. Attraversa quella che è la nebbia della morte con passo incerto e zoppicante, con una gamba più corta dell’altra di due centimetri, un ponte tra l’incompiutezza che lasciano i defunti e le illusioni in cui si cullano coloro che rimangono.
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