Maria Rita: una ragazza giovane, bella e brillante apparentemente proiettata verso un futuro felice. Lo Giudice: un cognome difficile, che in Calabria evoca l’eco di paura, violenza e dolore. Maria Rita Lo Giudice, di appena 25 anni, aveva da poco ottenuto una laurea a pieni voti in Economia dopo un percorso universitario impeccabile. Ma una vergogna pesava sul suo cuore, quella di appartenere ad una delle famiglie di ‘ndrangheta più feroci in Calabria: papà Giovanni è in galera, zio Nino collabora con la Giustizia e zio Luciano è un boss. Per questo Maria Rita Lo Giudice, scrivono gli investigatori, avrebbe deciso di togliersi di dosso il peso di una vita nella quale non si riconosceva, lasciandosi cadere da una finestra.
La morte di Maria Rita Lo Giudice si somma a quella di tante altre vittime di mafia. La sua scelta rievoca in particolare un copione già tragicamente visto: un’altra giovane ragazza, anche lei di nome “Rita”, anche lei appartenente ad una pericolosa famiglia mafiosa: Rita Atria, figlia del mafioso di Cosa Nostra Vito Atria, decise di uscire di scena allo stesso modo, lanciandosi da una finestra verso l’oblio.
La memoria si sposta di qualche decina di chilometri verso ovest, dalla Calabria alla Sicilia, nella città di Partanna (TP).
(Rita Atria)
Rita Atria era solo una ragazzina quando alla morte del padre era diventata la confidente del fratello Nicola, anche lui mafioso, che era solito raccontarle i dettagli del suo “mestiere”. Un giorno anche Nicola venne spezzato da una raffica di pallottole e Rita decise di collaborare con la giustizia, sotto l’ala paterna del giudice Paolo Borsellino. In quel magistrato gentile con i baffi un po’ ingialliti dalle troppe sigarette la piccola Rita vedeva il papà che avrebbe voluto avere, mentre i suoi parenti di sangue la rinnegavano e la minacciavano.
Ma un giorno una Fiat 126 imbottita di esplosivo spense le speranze di Rita e di tutti gli italiani onesti. E pochi giorni dopo Rita Atria in preda alla disperazione volò via. Aveva solo 17 anni.
Le dolorose vicende delle due “Rite”, così uguali nelle loro diversità, sono la riprova di un concetto estremamente banale: e cioè che la mafia è un sistema che distorce i valori fondamentali della vita e che i mafiosi sono persone dotate di scarsa intelligenza e disabituate alla bellezza. A che serve essere temuti se si spreca la vita in latitanza o in una cella? A cosa servono montagne di denaro se si deve vivere guardandosi costantemente le spalle? A cosa serve millantare il rispetto per la famiglia se metà dei parenti sono morti, latitanti o in carcere? A cosa serve la morte di una ragazza nel fiore degli anni se non a ricordarci che la mafia, ora e per sempre, non è altro che un’enorme montagna di merda?
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