Se c’è una figura che incarna Mafia Capitale è Massimo Carminati, il boss a cui, secondo l’accusa, tutto faceva capo, l’architetto di quel “mondo di mezzo” da lui teorizzato. La sua figura è la chiave per capire cosa sia successo a Roma negli anni passati e come sia stato possibile che la malavita si sia spolpata la città in silenzio, senza far rumore, lasciando intatte le parvenze delle strutture e mangiandola dall’interno. La storia di Carminati sembra un romanzo eppure è uno spaccato della nostra Italia, dove spesso ci si dimentica del passato: figlio della violenza del terrorismo interno degli anni Settanta, il Nero ha attraversato indenne gli ultimi 40 anni della storia italiana, incarnandone il volto peggiore. Chi è davvero Massimo Carminati e qual è la sua storia?
Le immagini del suo arresto hanno fatto il giro dei media: lui nella sua utilitaria che viene fermato dagli agenti con le pistole in mano come se fossimo sul set di un film. La realtà è che Massimo Carminati oggi è in carcere ed è a processo nell’aula bunker di Rebibbia.
CARMINATI OGGI: LE MINACCE DALL’AULA E DAL CARCERE
Il 24 ottobre, dopo un anno di silenzio, Carminati ha parlato davanti ai giudici: la settimana prima l’Espresso era uscito con un reportage di Lirio Abbate e Paolo Biondani in cui i giornalisti risalivano all’origine di tutto, cioè al 1999 quando Carminati rubò cassette di sicurezza dell’agenzia della Banca di Roma del Tribunale di Roma, dove c’erano averi e documenti di avvocati, magistrati, cancellieri del Palazzo di Giustizia, per usarle come arma di ricatto.
“Ecco, io vorrei difendermi solo dalle cose che sono in questo processo. Purtroppo, non lo posso fare. Voglio dunque che rimanga scritto che io penso che le cose che stanno succedendo fuori da questo processo sono altrettanto importanti di quelle che succedono dentro questo processo. L’Espresso pensa che io abbia aggiustato tutti i miei processi. E dunque, mi farebbe molto piacere che ci fosse una volta per tutte un’inchiesta che li verifichi tutti. Invece, mi sembra che tutti stanno zitti e che l’unico scemo, forse sono io. E che io sia il più scemo è sicuro”, ha detto in Aula.
La prigione non ha piegato er Pirata, come lo chiamano per via dell’occhio bendato (lo perse a causa di una sparatoria). Le intercettazioni fatte in carcere e riportate sempre da L’Espresso alla fine di settembre, sono chiare. “Tranquilli, tanto qui la ‘cosa’ andrà a finire con una cantonata” e così “una volta libero vado avanti per st’autostrada”. Ne sta parlando durante l’ora aria nel super carcere di Parma: non sa di essere intercettato e si confida con Giulio Caporrimo, boss di Cosa nostra a Palermo, capo della famiglia mafiosa di San Lorenzo, fedelissimo dei Lo Piccolo e del super latitante Matteo Messina Denaro. Carminati ha capito di aver di fronte un peso massimo della mafia, si vanta di quello che ha fatto e si dice sicuro di venirne fuori pulito perché i giudici “non hanno capito che gli piscio in testa se voglio”.
LA STORIA DEL TERRORISTA NERO DIVENTATO UN BOSS
Massimo Carminati nasce a Milano il 31 maggio 1958 e si sposta a Roma con la famiglia ancora adolescente. È nella Capitale che entra in contatto per la prima volta con la politica: sono gli anni delle contestazioni, del “nero e rosso”, dell’estremismo da una parte e dall’altra e il “milanese” si avvicina al MSI, confluendo poi in Avanguardia Nazionale, formazione di estrema destra (a destra della destra, come si direbbe oggi). La politica in quegli anni si vive per le strade, convive spesso con la violenza e Carminati ne interpreta in pieno il senso, diventando uno dei picchiatori più noti nell’ambito della destra eversiva.
Negli anni universitari stringe amicizia con Valerio Fioravanti (l’uomo dietro alla strage di Bologna per capirci) e con altri esponenti della destra neofascista ma non solo. Proprio per la sua nomea di violento, entra in contatto con gli ambienti della malavita romana non politicizzati, mantenendosi su due binari: da un lato la lotta armata di stampo neofascista con i Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari) di Fioravanti, dall’altro azioni criminali a fianco della Banda della Magliana.
Per tutti gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, è lui la figura di collegamento tra gli ambienti neofascisti romani e la malavita capitolina: dove ci sono sequestri, armi, violenze, rapine e anche omicidi il suo nome spunta di continuo. Come se non bastasse, tra il 1980 e i primi mesi del 1981 è in Libano a combattere a fianco dei falangisti cristiano-maroniti di Kataeb nella guerra civile contro i filo-palestinesi, portando tutto il suo bagaglio di conoscenze sulle armi, bombe e ordigni in primis.
È un nome di spicco di ogni ambiente criminale capitolino, che sia la destra eversiva o la malavita più classica ed è solo questione di tempo prima che cada in mano alle forze dell’ordine.
Il primo arresto risale al 1981: il mandato di arresto riguarda l’operato sotto i NAR, i carabinieri gli stanno addosso e pensa di fuggire in Svizzera con altri due solidali, quando viene fermato a Gaggiolo, in provincia di Varese, a una manciata di chilometri dal confine. Nel conflitto a fuoco che ne nasce viene raggiunto da una pallottola all’occhio sinistro di cui perde l’uso: da allora, oltre a essere il Nero, diventa anche Er Cecato o Er Pirata.
Negli anni viene arrestato e sottoposto a processo per i reati più diversi, uscendone in un modo o nell’altro sempre pulito: accusato dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, è l’unico degli indagati a essere assolto. Per il famoso furto al tribunale di Roma nel 1999, da cui sarebbe iniziata la costruzione del “Mondo di Mezzo” di Mafia Capitale, se la cava con una condanna ridotta a 4 anni.
Sembra intoccabile e il “mito dell’impunità” cresce a ogni processo. Pur nel suo coinvolgimento in varie vicende della criminalità, Carminati ha cercato di mantenere sempre un ruolo piuttosto autonomo, conquistandosi il “titolo” di un amico che non tradisce gli amici. Chi lo conosce lo descrive come uno pronto a usare metodi maneschi, che riescono a essere convincenti, che non parla molto e che apprezza chi parla poco.
Le vicende giudiziarie che lo riguardano (e sono tante), dalle rapine alle accuse di omicidio (viene processato anche per la morte di Fausto e Iaio – Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci – due militanti di sinistra uccisi a Milano il 18 marzo 1978 con 8 colpi di pistola: per la loro morte non si arriverà mai a una sentenza con colpevoli definitivi) si chiudono o con indulti, o con diminuzioni della pena per motivi di salute o con anni di carcere dimezzati secondo le intricate leggi italiane. Nel frattempo, “l’ultimo re di Roma” ha costruito il suo impero, fatto di corruzione e malaffare, di colletti bianchi, impiegati e politici conniventi al solo scopo di riempire le sue tasche.