Lionel Messi è l’eroe, il mito, la leggenda del pallone, ma è anche l’uomo e le sue emozioni. La sue luce e le catene che la stritolano, fino a quando la Pulce non la sprigiona. Ieri, nella partita da dentro o fuori contro il Messico, è emerso di nuovo il talento di un mancino che per forza è qualcos’altro, un divino che facciamo fatica a comprendere. E non dovremmo farci domande. Nel 2-0 che rimette nel cose a posto nel girone, però, c’è un’ombra meravigliosa e ingombrante che continua a comprimere il fenomeno del PSG: Diego Armando Maradona. Tutti parlano solo di lui la mattina dopo e siamo sicuri sia così corretto?
L’Argentina di Lionel Scaloni si arrampica oltre la montagna e si lancia verso gli ottavi di finale del Mondiale in Qatar, uno dei più discussi e politici della storia, con un 2-0 che non convince del tutto ma se lo fanno andare più che bene per balzare in testa al gruppo C. Una vittoria pesante, quindi, in attesa di un’altra finale, quella con la Polonia, che non potrà essere fallita. E che ha un trascinatore, un eroe sopra tutti: Leo Messi. Il campionissimo, il goat vive una lotta tutta sua, identitaria in questo Mondiale e che è ancora una volta la sua legittimazione assoluta nell’Olimpo del divino calcistico. Il paragone con Maradona è in tutto, da un tocco di palla ai numeri e con una schiera di tifosi pronti a condannarlo comunque, Leo. Nelle ultime ore è arrivata un’altra dimostrazione chiarissima.
Il Mondiale non è una competizione che lascia spazio a fallimenti. Perché si gioca ogni quattro anni, innanzitutto, e perché di tempo per recuperare non ce n’è. Nelle tre partite del girone, infatti, se se ne fallisce una, ci si condanna a vincere tutte le altre, in una corsa contro il tempo forsennata e che non termina sempre con un lieto fine. In quest’edizione a dir poco burrascosa e senza troppo spettacolo, questa sorte è capitata a Germania e Argentina, in modalità pressoché identiche.
Infatti, entrambe sono passate in vantaggio per poi farsi clamorosamente rimontare da Giappone e Arabia Saudita. Da lì la pressione interna e mediatica è salita alle stelle, anche perché i ko sono arrivati proprio contro chi non dovevano arrivare, le vittorie certe del girone. Una situazione sportivamente difficile, anche perché le vittorie contro Messico e Polonia non sono scontate (la prima è arrivata con diverse fatiche). E i tedeschi all’orizzonte hanno una Spagna in ottima forma che potrebbe subito estrometterli dalla massima competizione per Nazionali.
Ma ora concentriamoci solo sull’Albiceleste. La squadra di Scaloni aveva già solo un risultato a disposizione: la vittoria. In un Mondiale che per molti Messi e compagni dovrebbero obbligatoriamente vincere per scrivere una nuova pagina di leggenda individuale e popolare. L’inizio contro il Messico, però, è contratto, sulla scia della prima presentazione contro l’Arabia Saudita e un po’ di tutti gli ultimi anni. La squadra non riesce a creare grandi pericoli alla porta di Ochoa e a liberare il talento straordinario dei suoi uomini offensivi. La sfida si gioca soprattutto a centrocampo, in cui l’aggressività del Messico riesce a controbattere i tentativi di manovra di Scaloni, spesso anestetizzati. Insomma, le cose non si mettono subito bene e sarebbe stato importante per recuperare la sconfitta dell’esordio. E più minuti passano, più la pressione sale su un gruppo che – Coppa America a parte – ha dimostrato di non saperla gestire così bene.
Quindi, ricapitoliamo. L’Argentina ha un piede in bilico dalla parte del burrone e giù c’è solo il baratro dell’oblio sportivo. Serve la giocata del campione, serve qualcuno che si carichi sulle sue spalle il peso di tutta la squadra, serve Leo Messi, insomma. E Messi arriva. Angel Di Maria conduce la palla sul centrodestra e la passa centralmente alla Pulce.
Il calciatore del PSG la ammortizza con il mancino e fa partire un tiro che sembra docile, ma è angolatissimo, quasi magico e non lascia scampo a Ochoa, facendo la barba al palo. Iniziano esultanze di gioia e liberazione – e in Italia ne sappiamo qualcosa -, probabilmente la sensazione di aver vissuto una nuova pagina di storia. E sicuramente tanto lavoro per chi si occupa di statistiche e almanacchi. Poi c’è anche un altro timbro sul match: Enzo Fernandez, che in Serie A potevamo anche vedere ma Juventus, Milan e Roma non hanno affondato il colpo, ubriaca un avversario sul centrosinistra con un paio di finte e rientra sul suo piede destro. Scarica un tiro a giro che si insacca alla sinistra di un Ochoa, che stasera non è in vena di nuovi miracoli. Due a zero e palla al centro, ma soprattutto una nuova speranza: battendo la Polonia la qualificazione è sicura e come primi del girone: può essere ancora il Mondiale di Messi e dell’Argentina.
Insomma, una serata speciale per la Pulce che alimenta il suo mito e nuovi record. Proprio con il gol recapitato al Messico, eguaglia Maradona per partite giocate nella Coppa del Mondo, sono 21, e anche per gol realizzati (8), a sole due lunghezze da Gabriel Omar Batistuta, primo in questa classifica con dieci gol. Proprio nella sua ‘last dance’, la Pulce si avvicina al sogno, all’ossessione di raggiungere la coppa iridata e lo fa con le stigmate dell’eroe sospinto dal suo popolo e da estimatori in tutto il mondo. Semplicemente una leggenda vivente e che possiamo goderci ancora sul terreno di gioco.
In quel mancino di Messi non c’è solo la magia, la precisione, l’essenza del calcio. C’è la perseveranza di un mito che non vuole arrendersi a soccombere all’insuccesso, che va oltre l’ostacolo e i paragoni ingombranti. Negli spogliatoi, dopo i tre punti importantissimi di ieri, gli argentini hanno gridato tutti “Sono nato nella terra di Diego e Leo”. Che epoche, che meraviglia, che storia. Una festa, ma anche la pressione dell’eroe, nei suoi trionfi e nelle sue cadute, che ha accompagnato l’intera carriera di Messi.
Sì, non si può negare che il parallelismo tra Maradona e la Pulce di Rosario sia stato ed è piuttosto ingombrante per l’ex Barcellona. È impossibile non menzionare come tutto è cominciato. L’esordio di un giovanissimo Messi al Mondiale arriva sotto gli occhi di Diego, presente allo stadio. Le telecamere fanno avanti e indietro, un po’ sul talento che aveva già al mondo i suoi piedi, un po’ su Maradona. Quest’ultimo aveva in faccia l’espressione di chi sa che di aver trovato un erede, la sua continuazione immortale in campo e forse fuori. In quella partita, da subentrante, il dieci – all’epoca – del Barcellona va pure in gol e che fanno i cameramen? Pescano la gioia sincera dell’esultanza di Diego.
Poi, quando l’eroe più significativo del calcio argentino diventa Ct, le cose non vanno così bene. Messi non va neanche una volta in gol in quel Mondiale, l’Argentina non decolla. E lascia un brutto retrogusto in bocca. Probabilmente è stato un errore metterlo su quella panchina e ha caricato la Pulce di pressioni eccessive, ingestibili. La Coppa America potrebbe aver liberato il fenomeno del PSG da anni di insuccessi in Nazionale. Prestazioni sfocate, la sensazione che senza Iniesta e Xavi non sia la stessa cosa, ma soprattutto l’accusa di non riuscire a fare ciò che faceva Diego in un calcio comunque molto diverso: essere decisivo ed eroico, spostare da solo il peso delle partite solo facendosi passare il pallone.
Quest’ultima occasione in Qatar è un canto del cigno che potrebbe chiudere il cerchio della carriera di un campione che resta comunque assoluto e unico nella storia del calcio. Gli manca solo questo, quel Mondiale che il mito di Napoli ha raggiunto mandando in estasi una nazione intera e anche molto di più. La considerazione popolare che legittimerebbe il suo essere goat indiscusso, il migliore di sempre, altro che Cristiano Ronaldo, Pelé e compagnia.
Ci rifacciamo alla storia della Grecia classica e della mitologia, al mito di Edipo. Parliamo di uno degli eroi considerati più importanti dal mondo ellenico e uno dei temi più pesanti nella sua lettura è l’uccisione del padre. Un’immagine cruda, violenta, ma che raccoglie un’esigenza umana chiarissima: per crescere e maturare, fare fuori metaforicamente il padre vuol dire acquisire autonomia intellettiva, superare la dipendenza psichica da chi ci ha preceduto e indirizzato, soprattutto staccarsi definitivamente da un modello culturale storico, ma vecchio. Semplicemente, costruire la propria identità.
Per i greci non era per forza un evento traumatico. Vedevano probabilmente la ribellione giovanile, l’aspirazione all’indipendenza, come una risorsa, non come un tradimento. Ai nostri tempi è un po’ diverso e spesso il distacco del cordone ombelicale da padri spirituali ingombranti non è accettato e ostacolato dalla pressione dello stesso ambiente in cui dovrebbe realizzarsi. Maradona e Messi sono due strade diverse che si sono scontrate fin troppe volte nelle macchine del tempo sballate del calcio e hanno costantemente aggiunto una nuova dose di difficoltà sulle spalle della Pulce.
E poi i due iconici argentini hanno anche dei caratteri diversi. Diego era incontrollabile, il talento gli ha garantito una leadership naturale evidente e splendente, ma anche gli eccessi che hanno travolto spesso la sua vita. Messi no. È il talento puro nel campo da gioco e uomo misurato fuori. Non ha bisogno di dichiarazioni che sollevino polveroni, di autolegittimarsi, di quell’alone di presunzione che accompagna i migliori in ogni passo. E probabilmente le gestisce pure peggio, paradossalmente anche la luce dei riflettori.
Se non bastasse Edipo, anche Sigmund Freud nella sua psicoanalisi individuale che poi diventa collettiva parla di uccidere il padre, poi ci costruisce sopra una prima forma di religione, i totem, appunto nell’opera “Totem e tabù”. Un gergo che ancora oggi è rimasto comune nel nostro parlato, con un’accezione un po’ diversa ma quello è. I totem vanno divinizzati, adorati, rispettati prima di tutto. E non vanno mai traditi, in nessun senso.
Tornando al calcio, le caratteristiche fisiche e tecniche dei due fenomeni argentini hanno scandito, negli ultimi quindici anni almeno, paragoni troppo importanti per essere accettabili. Per carità, entrambi mancini, brevilinei, dal dribbling incontenibile nello stretto come a campo aperto. Maradona e Messi sono stati modellati dalla stessa pasta divina che hanno in pochi e con la stessa lingua per esprimersi. Poi, in un popolo come quello argentino che del calcio fa una religione per dimenticare i disastri politici e i problemi economici.
Però, ogni tanto dovremmo ricordarci che c’è anche dell’altro. Si può anche parlare dei successi di Messi senza scomodare ogni volta paragoni con Maradona, si può esaltare la memoria di Diego senza chiedersi se fosse meglio o peggio della Pulce. Il campione del PSG e plurivincitore del Pallone d’Oro mai come in questa occasione, ha la possibilità di superare il mito di sempre e toccare una nuova vetta di carriera e di storia, ma anche uccidere metaforicamente la memoria del padre che l’ha ossessionato con la maglia Albiceleste. E con tutte le critiche del caso.
A 35 anni e con ormai pochi anni davanti nei campi da gioco da protagonista assoluto, sarebbe veramente l’ultima volta per esprimere la sua identità vera. Quella vincente, ma fallibile. La tecnica, ma anche l’accettazione della sconfitta. E soprattutto una grandezza talmente sconfinata che paragonarla sempre a Maradona sarebbe quasi riduttivo. Insomma, in Qatar si giocano più sfide essenziali e profonde per Messi oltre a quella per la coppa. Ci si gioca il diritto a un’identità sciolta da quella di chiunque altro, la volontà di affermare la propria unicità. Di slegarsi dal dover soddisfare determinati parametri pre-legittimati. La possibilità di diventare lui il totem della storia del calcio, senza alcun dubbio nell’affermarlo, se non per preferenze individuali.
E senza ridimensionare un mito come quello di Maradona che, soprattutto in Italia e in Argentina, vivrà sempre nella memoria collettiva come colui che ha cambiato la percezione popolare e il peso di un pallone che entra in rete. Perché la verità è questa: noi e il calcio abbiamo bisogno di entrambi, di Diego e di Leo, senza dover per forza scegliere.
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