NA K14314 è la targa dell’auto che fu di Giancarlo Siani. La ormai celebre Mehari di colore verde su cui il giovane giornalista de “Il Mattino” di Napoli fu ucciso dalla camorra il 23 settembre del 1985. Un’auto che lui aveva molto desiderato perché, essendo completamente decappottabile, gli sembrava di restare ancora più a stretto contatto con la gente. Quella gente da cui riusciva, sempre, ad avere le informazioni che gli servivano per scrivere e denunciare la camorra. Quella Mehari verde che lui stesso andò a comprare in Emilia Romagna e di cui, poi, la famiglia volle sbarazzarsi perché era doloroso vedere ogni giorno, parcheggiata sotto casa, l’auto in cui era stato ucciso il Giancarlo. Recuperata dopo anni per un puro caso della vita è diventata il simbolo della vicenda di Giancarlo Siani, l’allegoria del giornalismo che ricerca la verità a ogni costo, ma anche il cimelio di un giovane che aveva voglia di cambiare le cose.
Il 23 settembre del 2013 la Mehari verde di Giancarlo Siani è ripartita grazie anche all’impegno di Paolo Miggiano, giornalista, scrittore, ex poliziotto e membro della Fondazione Polis (Politiche Integrate di Sicurezza per le Vittime innocenti di criminalità e i beni confiscati). C’era lui quel giorno a Napoli accanto a Roberto Saviano, che riaccese per la prima volta quell’auto. E da lì è cominciato, a bordo della Mehari, un viaggio della legalità che è arrivato fino a Bruxelles. Un viaggio che oggi Paolo Miggiano racconta nel suo nuovo libro “NA K14314”.
Che valore ha la sua Mehari verde nel ricordare Giancarlo Siani?
«C’è sempre qualcosa che rimanda a ciò che siamo stati. A ricordare Giancarlo Siani oggi è la sua automobile. L’auto dalla quale quella maledetta sera di fine estate del 1985 non riuscì a scendere. Oggi la Citroën Méhari verde è la personificazione di un ragazzo normale che voleva solo fare il giornalista. Quell’automobile che neanche la mafia ha fermato, per tanti ragazzi, che non erano neanche nati quando gli fu strappato, con violenza, il taccuino dalle mani, è motivo di ispirazione, simbolo di legalità, di impegno, di passioni, di libertà. NA K14314 ci restituisce l’idea di un ragazzo pulito, ma determinato. E se le sue idee continueranno a camminare anche quel giovane di ventisei anni continuerà a vivere e viaggiare insieme a noi. Solo così la sera del 23 settembre di trentadue anni fa non moriva Giancarlo, ma i suoi assassini».
Dopo l’omicidio di Giancarlo Siani, la famiglia volle liberarsi di quell’auto. Com’è stata poi recuperata?
«Si, della Citroën Méhari di Giancarlo, dopo il suo assassinio, la famiglia se ne disfò. Era troppo doloroso tenerla. Quando ti uccidono un fratello, un figlio, della sua automobile non te ne puoi occupare. Così della Mehari si persero le tracce. Finì nell’arcipelago delle Eolie, a Filicudi, cambiò colore e proprietario. Poi, per una serie di coincidenze, a ritrovarla, dopo circa trent’anni, fu Michele Caiazzo, all’epoca sindaco di Pomigliano d’Arco e amico di Giancarlo. Fu per caso che il nuovo proprietario si trovò nell’ufficio di Michele e gli parlò di una certa Mehari, perché Michele sul suo tavolo teneva il cofanetto “Le parole di una vita” con gli scritti di Giancarlo, il vero monumento che di quel ragazzo ci è rimasto».
Avete, così, organizzato “In viaggio con la Mehari”?
«Quando la Méhari fu ritrovata, il regista Marco Risi era in procinto di girare il suo film Fortapàsc. L’auto fu utilizzata per le riprese. Poi l’idea di un monumento nel suo quartiere, al Vomero. Un monumento che non si è fatto e forse è meglio così. Infine l’idea di organizzare un percorso di sensibilizzazione della società civile e delle istituzioni su tre temi fondamentali. Accompagnati da personalità come Roberto Saviano, Luigi Ciotti, Armando D’Alterio, Giovanni Minoli, la Méhari è ripartita il 23 settembre del 2013, per poi giungere sino al Parlamento Europeo, passando per Montecitorio e Palazzo Madama, per portare all’attenzione delle massime istituzioni nazionali e comunitarie tre temi: una vera lotta alla mafia, l’equiparazione dei diritti delle vittime dei reati, la libertà di stampa. La Méhari è tornata a casa con tante promesse, ma nessun risultato concreto».
La Mehari di Giancarlo Siani, oltre essere il luogo del suo omicidio, è anche il luogo da cui sarebbe stato rubato il famigerato dossier a cui lui stava lavorando. Che idea ti sei fatto su quel dossier?
«Io non so se quel dossier Giancarlo lo avesse con sé la sera in cui fu massacrato. Certo è che quel dossier è esistito e che non si è mai trovato. Certamente ne parlò con il suo maestro, il sociologo Amato Lamberti, il quale ha sempre sostenuto che la verità sul suo assassinio fosse un’altra da quella accertata giudiziariamente. Giancarlo lo scrisse alla sua ex fidanzata emiliana in una lettera del 7 giugno del 1984. In quella lettera troviamo il titolo: Torre Annunziata: un anno dopo la strage. Sappiamo che quella strage del 26 agosto 1984 (un massacro: otto morti e sette feriti, alcuni anche innocenti) era il suo assillo. Ce lo dicono oggi persone a lui molto care. Per me il dossier esiste. Non sono sicuro che si sia cercato come la situazione avrebbe richiesto. Si sarebbe dovuto cercare meglio e forse si sarebbe trovato e, con esso, sgomberati tanti dubbi e tante zone d’ombra».
L’omicidio di Giancarlo Siani ha una verità giudiziaria accertata, che tuttavia non ha sempre convinto tutti. Tu sei fra quelli che si accontentano della sentenza o ritieni ci sia dell’altro?
«Ci piaccia o no, soddisfatti o meno, la verità giudiziaria che ci è stata consegnata sull’omicidio di Giancarlo Siani è che egli il 10 giugno del 1985 scriveva un articolo dove ipotizzava che i Nuvoletta avrebbero potuto scaricare Valentino Gionta a favore di una tregua con Bardellino e Carmine Alfieri. In sostanza un patto dove i Nuvoletta scaricavano Gionta, facendolo arrestare proprio nei pressi della loro residenza. L’articolo infastidì molto i Nuvoletta che, dopo lunghe discussioni tra clan, decisero di farlo uccidere.
Ma Giancarlo, lo sappiamo, non era uno che si accontentava delle cose così come apparivano in superficie. Lui era uno che andava a fondo, scavava fino a giungere alla verità. In questo lavoro di scrittura del viaggio con la Méhari mi sono imbattuto in diversa documentazione. Ho consultato molti atti giudiziari. Certamente non come sapeva fare lui, ho cercato riscontri ai dubbi. Mi sono fatto le domande che ancora non hanno risposte. Ho trovato vecchi articoli, carte appartenute a lui. Ho scomposto e ricomposto i suoi scritti e nella filigrana delle sue parole viene fuori un quadro, un mosaico di notizie, di informazioni, di dettagli, di ricostruzione dei fatti che bisogna saper leggere o che perlomeno occorre provare a decifrare. L’ingarbugliata vicenda giudiziaria sul caso Siani pone ancora molte domande. Io me ne sono fatte più di quaranta. Sono le mie domande, che non hanno alcuna pretesa di smontare il complesso impianto giudiziario sul quale la magistratura ha messo la parola fine. Nessuna presunzione di cambiare il corso delle cose e dei fatti così come sono stati accertati. Nessun tentativo di riscrittura della storia, ma solo domande. Domande, per gettare una luce, per diradare le zone d’ombra».
Nel libro dici, giustamente, che quando ti chiedono cosa penserebbe oggi Siani di Napoli, della camorra e dell’antimafia non sai mai cosa rispondere. Tu, invece, cosa non sopporti?
«Non so davvero cosa non avrebbe sopportato oggi Giancarlo, ma di sicuro so ciò che non sopporto io. E ciò che non sopporto ha un nome e cognome, a partire dall’antimafia di facciata, ma il lettore si può inoltrare nel capitolo “Viaggio in ciò che non sopporto” e capirà meglio. Buona lettura e buon viaggio con “NA K14314. Le strade della Méhari di Giancarlo Siani”, di cui ho ceduto i diritti al “Premio Giancarlo Siani” della Scuola di giornalismo dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli».