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Notizie false su Facebook: chi ci guadagna nel crearle?

La battaglia alle notizie false su Facebook è ufficialmente iniziata con la prima segnalazione di una bufala da parte del social network. La fake news riguarda Donald Trump ed è stata pubblicata il 26 febbraio dal Seattle Tribune, sito che si definisce “news and entertainment satire web publication”, cioè una pubblicazione satirica, col titolo “Dispositivo Android poco sicuro di Trump fonte di recenti leaks dalla Casa Bianca”. Il 3 marzo quella stessa notizia è stata segnalata su tutti i feed di notizie di Facebook con un triangolo rosso e la dicitura “Disputed”, cioè contestata, con l’indicazione di due siti a cui la società di Mark Zuckerberg si è rivolta per il controllo delle news, nello specifico Snopes e PolitiFact. La notizia è interessante perché, per la prima volta, il social network attiva una sorta di programma di controllo, un filtro che indica agli utenti le notizie false, cioè le cosiddette fake news. L’argomento è molto delicato, soprattutto negli USA: in molti hanno accusato Facebook di aver favorito l’elezione di Donald Trump tramite la divulgazione di fake news. Le elezioni americane hanno però evidenziato un fenomeno già in atto da tempo, la presenza di notizie false sul web e sui social, ma chi le crea e perché lo fa? Soprattutto, cosa ci guadagna?

La segnalazione relativa alla segnalazione di Facebook arriva da Gizmodo. “Fa parte della politica repressiva contro le notizie false su Facebook”, spiega in un tweet la giornalista investigativa del network Anna Merlan.

“Finalmente Facebook ammette di avere un problema con le fake news e sta facendo qualcosa per risolverlo”, si legge nell’attacco del pezzo, a cura di Sophie Kleeman. Il social network ha dato il via alla battaglia contro il proliferare di notizie false che stanno imperversando sulle timeline di tutti. Varie le soluzioni messe in atto, come ha scritto Adam Mosseri, vice presidente del feed di news di Facebook, in un post: le “segnalazione più facili”, “le segnalazioni di storie ‘contestate’“, “la condivisione informata” e “lo stop agli incentivi finanziari per gli spammer”.

La segnalazione della fake news rientra nel secondo caso: Facebook non ha censurato la notizia ma ha posto un filtro che indica all’utente che la notizia è falsa dopo il fact checking. Il passaggio è importante perché chiarisce la posizione di Mark Zuckerberg sul rapporto tra media e Facebook.

Zuckerberg e il manifesto di Facebook

Il social network si è trovato al centro delle polemiche per aver contribuito alla diffusione di fake news create ad arte da Breibart, il quotidiano online di estrema destra diretto da Steve Bannon, oggi consigliere politico di Donald Trump alla Casa Bianca. Le accuse erano troppe perché Facebook continuasse a negare una qualche responsabilità e così è stato lo stesso Ceo e cofondatore Mark Zuckerberg a rispondere con quello che è già diventato il manifesto di Facebook. Il post è intitolato “Building Global Community”, costruire una comunità globale, e ha come primo obiettivo (anche se non dichiarato) opporsi alla politica di chiusura del presidente USA.

Il passaggio più interessante riguarda la definizione del social network come “infrastruttura sociale” e non come piattaforma editoriale, soggetto cioè che crea i contenuti che diffonde. “In tempi come questi, la cosa più importante che Facebook può fare è sviluppare le infrastrutture sociali per dare alla gente il potere di costruire una comunità globale che funziona per tutti noi”, scrive Zuckerberg nel manifesto.

È la conferma che Facebook è diverso da un quotidiano o da qualsiasi giornale online: Facebook non è responsabile di cosa viene pubblicato, ma può fare la sua parte nella creazione di una “comunità globale” che sia “sicura”, “informata”, “impegnata” e “inclusiva”.

Da qui la scelta di intervenire per la segnalazione di notizie false su Facebook, affidando il controllo a parti terze, nel dettaglio a siti informativi di fact checking (ABC News, Politifact, FactCheck, e Snopes). Una volta che la storia sarà certificata da questi esperti come “disputed” – contestata – sarà comunque visibile nel feed di notizia ma con l’indicazione di fake news.

Cosa sono le fake news

Il tema delle bufale su Facebook e in generale sul web è molto delicato e complesso. Una delle prime cose da tenere presente è la definizione di “bufala” o di “fake news” a cui è collegata la cosiddetta “post verità“. Il tema è così sentito che l’Oxford Dictionary ha scelto “post truth”, la post verità, come parola dell’anno 2016.

La post verità “denota o si riferisce a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti degli appelli a emozioni e credenze personali nel formare l’opinione pubblica”, spiega l’autorevole istituto, ma cosa significa?

Sapere che le bufale sono notizie false non basta. Quello che è davvero interessante è il grado di falsità di una notizia che può essere totalmente inventata dal nulla, oppure costruita ad arte partendo dalla realtà, magari distorcendo dati e numeri a proprio vantaggio, o raccontando una parte di verità.

Esistono diverse gradazioni di notizie false. Il massimo grado può essere indicato con il classico caso dell’invasione aliena raccontata da Orson Wells nella “Guerra dei Mondi”: ovviamente era tutto inventato ma il contesto, l’autorevolezza di chi parlava, il tono e i riferimenti alla realtà indussero gli ascoltatori a credere che fosse vera.

Quello che accadde allora, oggi succede tutti i giorni su qualsiasi social network: chiunque ha a disposizione un palcoscenico globale per mettere in scena il proprio spettacolo, anche i politici. Così Donald Trump ha ripetuto per mesi in campagna elettorale che la disoccupazione negli USA era sopra il 40%, descrivendo un’economia al collasso, mentre in realtà la disoccupazione negli States quando si è insediato a gennaio era al 4,1%.

Non conta la realtà dei fatti e dei numeri ma il racconto emotivo: il tycoon ha detto alla middle class (la vera vittima della crisi economica) quello che voleva sentirsi dire e continua a farlo ancora oggi, come nel discorso al Congresso. Ogni dato può essere piegato per descrivere il mondo non com’è ma come lo vogliamo: quando la stampa USA dimostrò che i dati diffusi dall’amministrazione Trump sulla partecipazione popolare al giuramento, erano falsi (il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer la definì quella con la più alta partecipazione nella storia), la stratega e consigliera di Trump Kellyanne Conway parlò non di bugie ma di “fatti alternativi

Questo perché siamo una delle società più chiuse in se stessa. Sembra una contraddizione ma non lo è: è quello che gli anglosassoni definiscono “eco chamber” o “bolla” per usare la definizione italiana: per essere connessi col mondo siamo inchiodati davanti agli schermi di un pc o di un smartphone.

Per di più, siamo soli con noi stessi. I colossi del web funzionano per algoritmi che indicano cosa ci piace: Facebook e soci ci mostrano solo ciò che ci interessa, selezionano per noi le notizie che vogliamo leggere, anche se non sono vere. “Ci siamo ritirati nelle nostre camere dell’eco, ripetendoci a vicenda opinioni di cui siamo già convinti”, scrisse l’Indipendent in un articolo a ridosso dell’elezione di Trump a proposito di “eco chamber”.

Chi guadagna con le fake news

Veniamo al punto chiave: chi ci guadagna con le fake news? Una prima risposta l’abbiamo già data: i politici, specie i populisti (qui la definizione di cos’è il populismo). L’elezione di Donald Trump lo ha dimostrato in maniera inequivocabile: pur avendo mentito più del doppio rispetto a Hillary Clinton (secondo l’analisi di Politifact, 50% di affermazioni vere per la democratica contro il 55% di bugie assolute del rivale), è stata la sua avversaria a passare per “liar”, bugiarda. Merito del “racconto emotivo” di cui parlavamo e di una strategia comunicativa che ha fatto del web il suo ambiente naturale. Dietro al successo di Trump c’è un volto, quello di Steve Bannon, l’estremista di destra che oggi siede alla Casa Bianca
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Steve Bannon

Grazie al suo Breibart e a una galassia di siti a lui collegato, Bannon ha inondato il web di fake news che hanno costruito l’immagine vincente di Donal Trump: un esercito di smanettoni, con server dislocati spesso in paesi dell’Est Europa (soprattutto agli americani), ha letteralmente inventato notizie sul miliardario, rendendole virali. Un esempio, è quello dell’endorsement di Papa Francesco a Trump, rilanciato dal sito WTOE 5 News (che si definisce “a fantasy news website”, sito di satira o di notizie inventate): Snopes ha dimostrato che era una bufala colossale, ma era già stata condivisa quasi 100mila volte prima di essere smascherata.

Una volta che la bufala è partita, è difficilissima da fermare proprio per l’effetto “bolla” per cui i social e i motori di ricerca ci mostrano solo quello che già ci piace.

L’esempio nostrano è il Movimento 5 Stelle che, secondo l’inchiesta di Buzzfeed (di cui avevamo già parlato) è legato a siti spacciatori di bufale. Teorie complottiste e linguaggio urlato servono ad attrarre click e quindi consensi in una società sempre connessa dove sempre più persone si informano tramite Facebook e i social: secondo il rapporto del Censis pubblicato a dicembre 2016, il 63% degli italiani usano i tg e il 35,5% solo il popolare social network.

I click non sono solo consensi, sono anche soldi veri per i gestori dei siti bulafari. Le bufale sono create apposta per ottenere like e visualizzazioni il che porta i proprietari dei siti a guadagnare tramite la pubblicità online. L’inchiesta, condotta da Agi sul mondo dei siti di bufala italiani, lo ha dimostrato. L’agenzia stampa ha svelato il meccanismo che si cela dietro ad alcuni siti tra i più popolari del web come Libero Giornale o il Fatto Quotidaino.com: la lista è lunga (tra questi News24italia.com, kontrokultura.com e molti altri) e riconduce a una società, la Edinet, con sede a Sofia, in Bulgaria che fa capo a Matteo Ricci Mingani.

L’imprenditore, 48 anni, di Alberga, proviene dalla galassia dell’estrema destra (ex Forza Nuova, è stato cacciato per indegnità da Stefano Fiore) si è prima difeso in un’intervista alla stessa Agi, in cui affermava di essere solo il gestore dei siti e di non essere un “fabbricatore di bufale. In un secondo momento però, intervistato da Le Iene (qui il servizio integrale), dichiara di essere il gestore di liberogiornale.com insieme con un altro ragazzo di soli 22 anni. Sempre nell’intervista al programma Mediaset, Mingani afferma di gestire 162 siti con un fatturato di 50mila euro in circa sei mesi di attività, soldi fatti inventando vere e proprie bugie, come quella di Paolo Gentiloni premier che chiedeva “sacrifici agli italiani”.

Gli imprenditori delle bufale guadagnano non tanto sull’ignoranza o la credulità delle persone comuni, quanto sui loro sentimenti, spesso negativi. “Non facciamo cambiare opinioni alle persone. Noi diamo alle persone ciò che vogliono sentirsi dire“, ha confermato il 22enne inventore di fake news. “Senza i social le mie notizie false non verrebbero divulgate in quel modo”, rincara la dose Mingani. Se dunque i bugiardi del web si arricchiscono è perché sono anche gli utenti a permetterlo, alla ricerca di qualcosa o qualcuno su cui sfogare rabbia e frustrazione ma raramente della verità.

Lorena Cacace

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