Continuano a persistere instabilità e tensioni in Libia, Paese nordafricano affacciato sul mar Mediterraneo, che causano rivolte e sconquassi nel mercato degli idrocarburi, di cui lo stato è esportatore.
Il primo luglio gruppi di manifestanti hanno assaltato il Parlamento nazionale con sede a Tobruk, in Cirenaica: è solo uno degli eventi di protesta popolare che stanno interessando varie città della nazione.
Uno stato che non riesce a risollevarsi dopo la morte, per mano di un forse poco lungimirante raid occidentale del 2011, del dittatore Muammar Gheddafi, l’unico a quanto sembra in grado di mantenere unito e pacificato il Paese, vista la debolezza delle sue istituzioni e le divisioni tribali della propria popolazione.
Continua di fatto a persistere la bicefalia governativa: da una parte l’esecutivo ad interim di Tripoli, la capitale, riconosciuto dall’ONU ed attualmente incarnato dal premier Abdel Amid Dbeibah; dall’altra il governo separatista cirenaico di Fathi Bashagha, eletto dal Parlamento di Tobruk in modo autonomo e non riconosciuto.
Quest’ultimo ha ottenuto l’immediato sostegno del feldmaresciallo Khalifa Haftar, l’iniziatore nel 2014 dello scontro per il controllo della nazione, il quale a sua volta è sostenuto nella sua opera di destabilizzazione e rovesciamento del potere dalla Russia di Vladimir Putin.
La riproposizione degli scontri, che imperversano da ormai un decennio sul territorio e che si sono raffreddati solo per un breve periodo nel 2021, genera malcontento e forti segnali di protesta della popolazione libica.
Questa, ormai esausta e martoriata, ha dato luogo ad una serie di proteste violente su tutto il territorio, a cominciare dallo stesso parlamento di Tobruk, che votando per la sostituzione illegittima di Dbeibah con Bashagha ha sostanzialmente fatto cessare la relativa stabilità raggiunta l’anno scorso.
Le contestazioni sono il frutto della stanchezza di una situazione, ormai incancrenita, di insicurezza, di mancanza di cibo (la Libia si affida inoltre ai cereali ucraini per i propri approvvigionamenti alimentari) e di aumento del costo della vita, che impatta su di una cittadinanza già povera. Il tutto è aggravato dalla paralisi politica ormai decennale, che lascia ben poche speranze sulla capacità dell’esecutivo di intervenire in favore dei più bisognosi.
In aggiunta, la nuova tensione verticistica sta compromettendo le già rimandate elezioni nazionali: ennesimo smacco per un popolo che non percepisce più alcun senso di appartenenza patria, di effettiva centralità nella vita e nelle sorti del Paese.
La polveriera descritta non rimane confinata nel territorio nordafricano, ma spande i propri pulviscoli sulle relazioni ed interconnessioni globali. La Libia è infatti un importante esportatore di idrocarburi, materie prime oggi ancora più centrali vista la volontà occidentale di liberarsi da quelli moscoviti, dopo l’aggressione russa di Kiev.
La ripresa degli scontri militari e sociali ha già rallentato o fermato alcuni impianti estrattivi e non è dato sapere quanto durerà e come evolverà la situazione di incertezza. Sicuramente si assisterà ad un aumento dei prezzi e a possibili diminuzioni nelle forniture.
Quasi a grido disperato lanciato nell’aria, la sofferenza libica si fa udire da altri Paesi poiché ne intacca, indirettamente, interessi e standard di vita e produzione: sembra questo, purtroppo, l’unico modo affinché qualcuno porga l’orecchio.
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