Omicidio Lidia Macchi: la Procura generale presenta ricorso contro il risarcimento a Stefano Binda per ingiusta detenzione. Il caso continua a far discutere.
A favore di Stefano Binda, rimasto in carcere per circa 3 anni e mezzo con l’accusa di essere l’assassino della giovane Lidia Macchi, è stato riconosciuto un indennizzo di oltre 300mila euro, a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione.
Imputato e poi assolto con formula piena dall’accusa di aver ucciso Lidia Macchi, Stefano Binda è un uomo libero che ha trascorso circa 3 anni e mezzo in cella.
Inizialmente ritenuto responsabile dell’omicidio, è rimasto in carcere per un totale di 1286 giorni e gli è stato riconosciuto un risarcimento di 303mila euro per l’ingiusta detenzione.
Ma ora la Procura generale avrebbe presentato ricorso contro l’indennizzo e la vicenda sembra destinata a un nuovo iter giudiziario.
Secondo quanto riportato in queste ore dall’Ansa, la Procura generale avrebbe fatto ricorso contro il risarcimento riconosciuto a Stefano Binda nel caso Lidia Macchi per un motivo preciso.
All’uomo, rimasto in carcere per 3 anni e mezzo con l’accusa di essere l’assassino della 21enne – trovata morta nel gennaio 1987 a Cittiglio (Varese), dopo essere stata stuprata e accoltellata -, secondo la Procura generale l’indennizzo non spetterebbe perché “con i suoi silenzi” avrebbe concorso all’errore giudiziario prodotto a suo carico.
In poche parole, Stefano Binda avrebbe contribuito alla sua ingiusta detenzione con il suo silenzio. Una condotta che, anche se soltanto colposa, potrebbe configurare un concorso determinante allo sbaglio in sede di disposizione di custodia cautelare.
Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, i magistrati avrebbero quindi intenzione di “bloccare” l’indennizzo a Stefano Binda.
L’uomo, che ai microfoni di Marco Oliva per Iceberg aveva detto di non aver incassato ancora nulla del risarcimento, dovrà ancora attendere per l’intervenuto ricorso.
Soltanto all’esito eventualmente positivo della valutazione sull’azione della Procura generale avverso il suo risarcimento, potrà forse vedere quei soldi.
Ora la questione arriva a un bivio in fatto di giurisprudenza, perché l’avvalersi della facoltà di non rispondere, da parte di Stefano Binda, rientra nel diritto dell’indagato e tale condotta, secondo la normativa sulla presunzione di innocenza, non è ritenuta incisiva ai fini della riparazione per l’ingiusta detenzione.
Tuttavia, la Procura generale avrebbe ritenuto che la “condotta mendace” in sede di interrogatori sia “fortemente equivoca” al punto da produrre un sostanziale concorso nell’errore che avrebbe visto Binda finire in prigione.
Stefano Binda fu accusato di aver commesso il delitto Macchi nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1987. A suo carico fu disposta la custodia cautelare in carcere e vi avrebbe trascorso 1286 giorni, tra il 2016 e il 2019. A Iceberg, su Telelombardia, nel 2022 Stefano Binda ha affidato un commento sull’iter giudiziario che lo ha coinvolto:
È stato montato un processo indiziario a mio carico, nonostante prove positive a mio favore ho preso l’ergastolo a Varese
Nel 2018, in primo grado a Varese, Stefano Binda era stato infatti destinatario di una condanna all’ergastolo, poi assolto dalla Corte d’Assise d’appello di Milano e in via definitiva in Cassazione nel 2021.
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